Ue, Usa e Cina: i dazi si battono solo se ritorna la piena fiducia
di Gianmarco Ottaviano
4' di lettura
Mentre Donald Trump è quotidianamente impegnato a innervosire con i suoi tweet a turno tutti i suoi principali partner commerciali (dalla Cina all’Unione europea, dall’India al Canada e al Messico), gli altri Paesi hanno cominciato a dedicarsi con rinnovato entusiasmo alla produzione di una nuova generazione di accordi preferenziali, volti a rinsaldare i loro legami economici reciproci a dispetto, verrebbe voglia di dire, degli Stati Uniti.
In linea di principio, gli accordi commerciali preferenziali tra gruppi ristretti di Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) sarebbero una violazione del suo motto multilaterale “o tutti (partecipano), o nessuno (può partecipare)”. Tuttavia questa violazione è tradizionalmente tollerata nella misura in cui gli accordi tra pochi possono essere considerati un primo passo verso futuri accordi tra tanti, soprattutto quando gli esclusi, in questo caso gli Stati Uniti, non se ne curano.
Prendiamo il caso dell’Unione europea. A oggi la Ue ha accordi in vigore con circa trentacinque Paesi. L’ultimo è quello entrato in vigore con il Giappone il 2 febbraio 2019. In aggiunta, l’Unione ha molti altri accordi in diverse fasi di completamento. Con poco meno di una trentina di Paesi ha già concluso con successo la fase di negoziazione dei relativi accordi commerciali. Molti dei Paesi coinvolti sono africani, ma il fiore all’occhiello è la recentissima conclusione, il 28 giugno 2019, dei negoziati con il Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale, che coinvolge il Paraguay e l’Uruguay, ma anche l’Argentina e soprattutto il Brasile, la maggiore potenza economica sudamericana e un membro del circolo ristretto dei “grandi mercati emergenti” (di cui fanno parte colossi come Cina e India). Questi accordi attendono la firma delle controparti e la successiva ratifica interna dei Paesi firmatari in un’ottica “dentro o fuori”: o vengono firmati e ratificati così come sono o non se ne fa niente (“no deal”). Questo vale ovviamente anche per il negoziato concluso il 14 novembre 2018 con il Regno Unito in ambito Brexit, anche se il nuovo primo ministro britannico Boris Johnson sembra doversene ancora fare una ragione.
A una fase più avanzata in termini di completamento sono altri accordi già firmati ma non ancora ratificati, come quelli con Singapore e Vietnam, siglati rispettivamente il 19 ottobre 2018 e 30 giugno 2019. Ci sono infine ulteriori accordi con più di quaranta partner commerciali, che sono anch’essi firmati e in attesa di ratifica, ma vengono già applicati in via provvisoria. Questi ultimi coprono un gran numero di Paesi africani, i Caraibi, la quasi totalità dei Paesi del Centro America, quasi tutto il Sudamerica fuori dal Mercosur e soprattutto il Canada. Tirando le somme, la Ue ha quindi accordi commerciali in vigore o in cantiere con più di cento Paesi in tutto il mondo.
La ragione di questa iperattività europea è che il commercio internazionale ha bisogno di certezza nelle regole del gioco e gli accordi internazionali sono il modo migliore per creare tale certezza, almeno quando non c’è Donald Trump a rappresentare uno dei contraenti. Dal marzo 2018 molto si è detto e scritto sugli “effetti del primo ordine” della guerra dei dazi dichiarata dagli Stati Uniti contro il resto del mondo, cioè sugli effetti causati da tasse più alte sulle importazioni americane. Molto meno si è detto e scritto sugli “effetti del secondo ordine” della strategia neo-protezionista del presidente americano, cioè sugli effetti dell’incertezza causata dalle accelerazioni, dalle sterzate e dalle inversioni di marcia della sua amministrazione in materia di commercio internazionale.
Per capire quanto questi “effetti del secondo ordine” possano essere importanti, è utile analizzare che cosa è successo dopo che Stati Uniti e Cina sono diventati “amici” in occasione dell’ingresso della Repubblica Popolare Cinese nell’Omc l’11 dicembre 2001. La maggior parte dello straordinario aumento delle importazioni americane dalla Cina è avvenuto proprio a partire da quella fatidica data. Verrebbe quindi naturale pensare che sia stata la riduzione dei dazi statunitensi, di cui ha potuto godere la Cina entrando nell’Omc, a causare la crescita delle importazioni statunitensi.
In realtà le cose non sono andate così. E la ragione è che i dazi applicati dagli Stati Uniti alle importazioni cinesi sono rimasti pressocché invariati dopo l’ingresso della Cina nell’Omc. A stimolare il commercio cinese, infatti, non è stata tanto la riduzione dei dazi quanto la riduzione dell’incertezza sui dazi tra i due Paesi. È vero che, in base alla “clausola della nazione più favorita” (Cnpf), nessuno Stato membro dell’Omc può discriminare un altro Stato membro, imponendo a quest’ultimo dazi più alti che agli altri Stati membri. Tuttavia, gli Stati Uniti già applicavano volontariamente alla Cina tale clausola dal lontano 1980. L’aspetto cruciale è che, essendo una concessione, in qualunque momento gli Stati Uniti avrebbero potuto cancellarla. Non l’hanno mai fatto, ma negli anni Novanta, sulla scia delle proteste della piazza Tienanmen, la revoca è finita regolarmente sul tavolo del parlamento di Washington. Una spada di Damocle sulla testa delle imprese cinesi, la cui caduta avrebbe comportato un drammatico aumento del dazio medio americano sulle importazioni cinesi, per esempio dal 4 al 31% nel 2000.
A promuovere gli scambi tra Cina e Stati Uniti dopo il 2001 non è stato tanto l’esercizio effettivo della Cnpf, quanto la certezza che tale esercizio non poteva più essere sospeso unilateralmente da una delle due parti. I danni più duraturi che Donald Trump sta facendo all’economia mondiale non vengono necessariamente dai maggiori dazi, ma piuttosto dall’incertezza creata sulle “regole del gioco” scritte nei trattati internazionali. Per questo motivo, i costi dell’incertezza causata dalla guerra dei dazi potrebbero permanere a lungo anche se dovesse presto scoppiare la pace. Permarranno fino a quando non verrà restaurata la piena fiducia in un sistema condiviso di accordi stabili tra partner commerciali affidabili.
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