DESIGN THINKING

Un approccio sistematico di problem solving può migliorare il mondo?

Le tre parole empatia, creatività e interazione sono tre princìpi basilari che fungono da linee guida per utilizzare il metodo in modo corretto

di Giovanna Prina *

(AFP)

5' di lettura

Ogni giorno ci troviamo di fronte a problemi da risolvere e a soluzioni da scoprire, nella costante ricerca di idee nuove. Le esigenze di innovazione e di differenziazione dalla concorrenza ci spingono a cercare metodi e modalità sempre diversi per stimolare il pensiero creativo e per portare a casa risposte alternative a quelle note e consolidate, nella speranza che ciò che è nuovo e differente possa anche essere migliore. Cosa non sempre vera.

Tra le varie alternative emerse negli ultimi decenni, il Design Thinking è forse l’approccio che può aiutare maggiormente a far coincidere i concetti di nuovo e di migliore. Ad un patto però: che sia applicato seguendo i suoi principi cardine. Il Design Thinking è un approccio all’innovazione per risolvere problemi complessi utilizzando una visione creativa. In origine adottato da agenzie e studi di design, è stato messo a punto come metodo per aiutare le aziende ad innovare e differenziarsi attorno agli anni 2000. Da allora si è diffuso in modo significativo nel mondo del business.

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Come tutti gli approcci sistematici anche il Design Thinking si presenta con un metodo organizzato in fasi e con una serie di strumenti e tool dedicati a gestire i vari momenti in modo efficace. Il suo scopo è di aiutare le organizzazioni composte da persone normali (ovvero senza alcun Leonardo da Vinci su cui contare per trovare l’idea geniale) a risolvere problemi e a creare valore, per cui la strutturazione in fasi è benvenuta e necessaria.

Le fasi sono ben descritte ed organizzate nel libro Design for Growth, di Jeanne Liedtka e Tim Ogilvie e sono riassunte in 4 domande:

1) What is? che fa riferimento alla focalizzazione sul problema da risolvere e alla comprensione della situazione esistente.

2) What if? legata alle attività di brainstorming e creazione di molteplici idee e soluzioni, fatte cercando di uscire dai vincoli e da tutto ciò che oggi limita l’individuazione di possibili soluzioni al problema da affrontare.

3) What wows? che richiede una risposta in termini di verifica dell’effettivo valore che le soluzioni individuate possono portare al cliente e all’azienda e alla scelta di quelle più efficaci. Il focus è sulle idee che possono portare maggior valore nella risoluzione del problema, non alle migliori in assoluto. È anche la fase dove dopo la selezione delle idee si costruiscono i “prototipi rapidi” che hanno lo scopo di trasformare un’idea in qualcosa di visibile, tangibile e concreto per chi la deve valutare.

4) What works? è la domanda legata alla fase di sperimentazione, dove il prototipo viene valutato e perfezionato con il cliente per poi fare un lancio e un test sul mercato. È una fase in cui si cercano tutte le critiche o le possibili disconferme dell’idea, del suo funzionamento e del suo valore, cercando feedback rapidi e veloci, in modo da poter capire se vale la pena continuare o se la scelta migliore è ricominciare il ciclo, per evitare di perdere tempo e denaro nel perseguire in una strada che non decolla.

A prima vista le fasi appena elencate non sono così differenti da molti altri processi e metodi per l’innovazione. Vero, ma quello che il Design Thinking porta di differente è contenuto nei suoi principi, che Jeanne Liedtka identifica con tre parole: Empatia, Creatività e Iterazione. Il Design Thinking parte dai clienti e dall’abilità e volontà di creare un migliore futuro per loro. Empatia significa stabilire una profonda comprensione di coloro per cui stiamo progettando e dei loro bisogni.

Non si tratta qui di una generica concentrazione sul cliente. Tutti sappiamo che dobbiamo essere orientati al nostro cliente e alle sue esigenze, ma il Design Thinking chiede e pretende di lavorare in modo profondo, diretto e personale sui nostri interlocutori. È un approccio che vuole conoscere i clienti come persone reali, con problemi reali, e non vederli come obiettivi di vendita o come un insieme di statistiche demografiche su età, livello di reddito o stato civile. Implica quindi lo sviluppo di una comprensione dei loro bisogni e desideri sia emotivi sia razionali.

Seguendo il principio dell’empatia, le metodologie di indagine della fase 1 (What is?) non sono le classiche modalità analitiche e statistiche, ma sono metodologie fortemente qualitative e partecipate, dove lo scopo è mettersi il più possibile nei panni del cliente e vedere il problema con i suoi occhi. Si utilizzano, ad esempio, le tecniche etnografiche che studiano le situazioni relazionali e sociali attraverso un lavoro di osservazione diretta “sul campo”, per integrarsi, interagire e ricevere informazioni il più possibile spontanee, e per conoscere a fondo i comportamenti effettivi del consumatore in tutti i momenti di relazione con la situazione oggetto di indagine.

Empatia è anche un principio guida che riguarda le fasi 3 (What wows?) e 4 (What works?) dove il cliente è attore e co-creatore della valutazione e la ricerca del suo feedback è fatta per permettere la valutazione dell'idea dal suo punto di vista.

La seconda parola, creatività, è quella che permette di tradurre Design Thinking in Pensiero progettuale, ossia pensiero libero, che costruisce concetti e idee e crea qualcosa che ancora non esiste. Per Jeanne Liedtka, i Designer sono coloro che inventano il domani e creano qualcosa che ora non c’è. Per fare innovazione e risolvere problemi complessi creando valore dobbiamo avere ben in testa che ciò che ci sarà in futuro sarà diverso dal presente.

Il principio della creatività del Design Thinking richiede ai Manager e alle aziende di ragionare come Designer, prendendo in considerazioni i vincoli che devono gestire, ma nello stesso tempo di considerare le opportunità che questi offrono e di sfruttare tutta la potenza innovativa che arriva dall’aver approfondito la conoscenza empatica dei problemi dei clienti.

La fase 2 (What if) ispirata da questo principio inizia con la domanda “E se tutto fosse possibile?” e il primo lavoro che chiede di fare è di rimuovere quegli assunti che ci impediscono di vedere le cose da visuali differenti.

La terza parola, Interazione, è legata al fatto che problemi complessi non si risolvono con una logica lineare. Il Design Thinking insiste sul fatto che ci prepariamo a reiterare la nostra strada verso una soluzione, e che dobbiamo essere sempre in apprendimento. Un’invenzione di successo richiede sperimentazione e capacità di leggere i risultati che questa sperimentazione ci porta. Quindi il compito è quello di imparare da ciò che sta succedendo.

Questo principio è presente in tutto il processo ma in modo particolare nella fase 4 (What works?) che ha lo scopo di comprendere velocemente se davvero la soluzione scelta funziona. Si fa il prototipo, si fa valutare, si modifica, di torna indietro, si scarta l’idea che non funziona e si ripete. Veloci e senza paura di modificare il proprio percorso se il consumatore non trova quello che cercava. Capaci di apprendere rapidamente e senza mettersi in posizione di resistenza per difendere quanto fatto fino ad ora.

Le tre parole empatia, creatività e interazione sono tre principi e fungono da linee guida per utilizzare il metodo con l’approccio corretto. A volte, di fronte ai metodi, può infatti esserci il rischio di innamorarsi delle fasi e degli strumenti offerti e di dimenticare perché li stiamo utilizzando. I principi ci aiutano a restare agganciati alla finalità del Design Thinking: fare qualcosa che serve realmente al cliente, profondamente ed empaticamente conosciuto e coinvolto, realizzando soluzioni di valore, capaci di accettare prove ed errori, permettendoci di vivere l’incertezza insita nel processo innovativo con entusiasmo e capacità di apprendere in modo continuo. Forse questo approccio può migliorare il mondo.

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