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Un «bel lavoro», concetto nuovo oltre il Novecento (quando c’è)

Se i giovani ai colloqui chiedono di lavorare da remoto, se avere i weekend liberi diventa dirimente, se la consapevolezza di essere parte di un’impresa in cui le sfide imposte dalla sostenibilità deve essere priorità strategica per accettare un impiego significa che il lavoro sta cambiando valore

di Alberto Orioli

. Un fotogramma dal film «Tutta la vita davanti» (Paolo Virzì, 2008) ispirato dal libro di Michela Murgia

3' di lettura

Se i giovani ai colloqui chiedono di lavorare da remoto, se avere i weekend liberi diventa dirimente, se la consapevolezza di essere parte di un’impresa in cui le sfide imposte dalla sostenibilità deve essere priorità strategica per accettare un impiego significa che il lavoro sta cambiando valore. O valori. Ne parla Alfonso Fuggetta, uno dei più brillanti informatici italiani docente di Informatica al Politecnico
di Milano, oggi alla guida del Cefriel (centro di ricerca e innovazione digitale), nel suo recentissimo libro Un bel lavoro. Ridare significato e valore
a ciò che facciamo
(Egea).

Nuovo significato e nuovo senso: è questo che i giovani chiedono all’idea del lavoro che sembra ricondotta in un relativismo inedito dopo le ubriacature ideologico-identitarie che sulla centralità del lavoro hanno punteggiato
il Novecento.

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Fuggetta parte dall’urgenza di riflettere su «questa strana società dove ogni giorno si parla di mancanza di lavoro e, al tempo stesso, le imprese denunciano la scarsità di personale, a riprova di una distanza che non è solo nelle competenze e professionalità richieste e offerte, ma anche e soprattutto nelle aspettative ed esigenze delle parti».

La narrativa sulla quit generation o sulla great resignation che racconta il fenomeno delle dimissioni di massa molto evidente in America fa da sfondo alle riflessioni dell’autore e ne orienta l’analisi fino a farla sembrare, a tratti, distante
da una realtà come quella italiana dove il lavoro diventa un tema polarizzante tra chi si può permettere quegli scrupoli valoriali e chi invece accetterebbe un impiego a ogni costo perché lo considera comunque un miraggio.

Tuttavia l’affievolirsi dell’identificazione con il lavoro è fenomeno crescente. L’87% di chi è occupato – avverte il Censis – dichiara di dedicare troppo tempo al lavoro e di avere maturato l’intenzione di diminuirlo e di ridimensionarlo a beneficio delle relazioni sociali o dei propri hobby. Sempre secondo il Censis, non funziona più il tradizionale intreccio lineare tra «lavoro-benessere economico-democrazia». Il rischio diventa quello di una nuova cultura della contrapposizione tra lavoro e vita; tra lavoro e ozio, magari alimentata dall’utopia del lavoro del futuro appaltato ai robot, in un mondo ideale come era quello immaginato dai greci anichi.

E dunque con il crescere della qualità formativa dei giovani sale il livello delle aspettative e quindi il lavoro, il «bel lavoro», che è l’obiettivo analizzato da Fuggetta, si definisce sulla base di quel significato che l’autore ha sintetizzato in un decalogo. Deve avere, ad esempio, una rilevanza sociale riscontrabile, deve garantire una qualità nel prodotto, nel modo per realizzarlo e nell’impatto che ha sul mercato, deve farsi carico di una flessibilità positiva che diventi paradigma per la conciliazione del tempo di vita e del tempo di lavoro. E ancora – solo per citare altri punti del decalogo – il lavoro deve essere svolto in contesti inclusivi e aperti e deve consentire di accrescere le proprie competenze e il proprio sapere. Deve facilitare l’apporto creativo di tutti i dipendenti, anche quelli che svolgono le mansioni più ripetitive e tradizionali. Deve garantire politiche salariali che «superino la situazionedi grave depressione e carenza che oggi viviamo». A questo proposito Fuggetta lancia una proposta: «Puntare ad aumenti più significativi della parte fissa per i giovani e aumenti della parte variabile per le persone di maggiore responsabilità e seniority».

Ecco dunque il «bel lavoro», prototipo anticipatore di un fenomeno destinato ad allargarsi, ma, a conti fatti, per adesso potenzialmente limitato a una piccola parte degli occupati. Eppure anche nel lavoro meno innovativo e più tradizionale questa ventata di nuova cultura può avere impatto se la si declina – come fa Fuggetta – tra obiettivi individuali e modalità relazionali, tra riflessioni personali e pillole di management.

Dove siano calibrati, in modo innovativo,
i valori tradizionali di lealtà, trasparenza, accettazione e flessibilità.

Dove la parola «correttezza» possa trovare una declinazione non affidata soltanto al formalismo di regole che non sono mai vita vissuta. E dove la responsabilità sia anche la caratteristica
delle imprese che sanno aprirsi alla società
senza rinunciare al perseguimento del legittimo obiettivo del profitto.

La lettura del volume conduce alla fine a una sfida epocale: «Dare a tutti la possibilità di avere un “bel lavoro”, un lavoro che non solo permetta di vivere
la propria vita in sicurezza e salute, ma che
offra le soddisfazioni, le gratificazioni e la qualità della vita che costituiscono oggi le giuste aspirazioni di ogni essere umano».

Se guardiamo al tasso di occupazione diffuso ieri dall’Istat che è al 60,5% (in crescita, ma sempre otto punti meno della media Ue e con la Sicilia ultima regione in Europa al 41%) la sfida diventa davvero ardua. Di quelle così impossibili che val la pena di accettare, quasi quanto la sfida ad essere felici.

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