Un Campiello di storie (e lettori) forti
di Gianluigi Simonetti
6' di lettura
Dopo aver parlato a lungo di fenomeni formali, ci siamo soffermati, la settimana scorsa, su due tipologie di autore che si sono imposte, un po’ per caso e un po’ per marketing, nella narrativa degli ultimi dieci anni. Siamo entrati, insomma, nelle officine degli editori, cercando di identificare gli esiti stilistici di alcune loro scelte di mercato. Proviamo adesso a uscire all’aria aperta, in quello spazio misto che sono i saloni, o meglio ancora i premi letterari; e proviamo a considerarli non come giocattoli mondani, ma come indicatori sociologici delle tendenze culturali in atto. Sospendiamo il discorso sulla storia (recente) delle forme per verificare quanto abbiamo detto sul banco di prova dell’attualità: il premio Campiello, ad esempio, che tra una settimana conoscerà la sua serata conclusiva.
Evento interessante, il Campiello, perché a differenza dello Strega (della cui edizione di quest’anno abbiamo parlato nella «Domenica» del 25 giugno scorso e poi del 2 e 9 luglio) prevede che a selezionare i libri finalisti sia una «Giuria dei Letterati» ristretta, formata da meno di una dozzina di esperti di narrativa italiana - soprattutto studiosi e professori. Come per lo Strega, a contendersi la vittoria finale restano cinque opere, giudicate da trecento anonimi lettori, presumibilmente «forti», ma non specialistici. Ma se la cinquina dello Strega va considerata rappresentativa, tra l’altro, dei disegni del mondo editoriale, in stretta relazione con i gusti di una platea di varie centinaia di lettori, la cinquina del Campiello – e sottolineo la cinquina, non il vincitore finale - esprime di solito un’inclinazione più culturalistica, a volte più accademica. Esagerando un po’ si potrebbe sostenere che mentre lo Strega pensa e agisce, soprattutto, sul mercato – con conseguenze immediate sulle vendite dei libri vincitori - il Campiello al mercato ogni tanto reagisce, suggerendo talvolta strade alternative, complanari, a volte (non sempre) più impervie. Se guardiamo alla storia del premio troveremo spesso, nel novero dei finalisti, almeno un libro che potremmo definire per qualche motivo atipico, o «difficile», che di solito non è arrivato in cima al podio ma ha saputo lasciare un segno nella storia letteraria: basti pensare, per limitarsi a pochi casi non troppo remoti, a Fratelli d’Italia di Arbasino (con l’edizione del ’94), a Campo del sangue di Affinati, a Vite di uomini non illustri e Nati due volte di Pontiggia.
Questa premessa può introdurci alla cinquina di quest’anno, nella quale figurano Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi, La città interiore di Mauro Covacich, L’arminuta di Donatella Di Pietrantonio e La ragazza selvaggia di Laura Pugno. La casella dell’atipico – non del «difficile», in questo caso - pare riempita, stavolta, da Qualcosa sui Lehman, un’opera di ottocento pagine che si proclama «romanzo/ballata» e che si fatica a immaginare allo Strega, non foss’altro che per il fatto che è in versi. Massini ha scritto un’opera di larga gittata, che non ambisce solo a ricostruire la storia di una famiglia – quella dei Lehman, ebrei tedeschi immigrati negli USA alla metà dell’Ottocento, destinati a fondare dal nulla un impero economico che culmina nella creazione e poi nella caduta della omonima, celebre banca d’affari – ma intende cantare il ciclo dell’economia moderna, dall’ossessione originaria per la concretezza delle merci a quella terminale per l’immaterialità del denaro. Si tratta insomma di un libro sullo spirito del capitalismo, fatto di personaggi tipici e scene-madre, non particolarmente sottile, ma efficace e illuminante, che ha il merito di insistere sugli aspetti religiosi del consumo. Atipico non vuol dire isolato: Qualcosa sui Lehman si iscrive in uno sforzo massimalista, o epico, che è di una parte non piccola della narrativa italiana degli anni Zero - da Wu Ming a De Cataldo, da Saviano a Genna – e che ha molto a che fare con quel tentativo di collegare letteratura e mondo di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane. Solo che Massini, a differenza dei suoi predecessori, non ci prova nemmeno a scrivere il Grande Romanzo; il suo massimalismo segue vie meno battute e ardue. Allo stesso tempo, Qualcosa sui Lehman è un esempio perfetto di quel gusto per la velocità e l’ibridazione che abbiamo visto essere le vere dominanti formali della letteratura circostante. Ibridazione, perché fonde diversi generi letterari (epos, teatro, romanzo, poesia) e diversi linguaggi (a un certo punto compaiono tavole a fumetti). Velocità, perché il senso spiccato della drammaturgia gli permette di scorrere rapidamente sugli eventi, attraversando centocinquant’anni di storia senza inciampare nella fatica di descrivere i paesaggi esteriori e interiori; la scelta di andare a capo, d’altra parte, esime dal doversi inventare una lingua e un’anima per ogni personaggio - pensa a tutto il menestrello e solo la storia, travolgente, importa. Il verso di Massini non ha nulla di poetico, tantomeno di lirico: scandisce un ritmo senza respiro e senza musica interna, funzionale all’energia della messa in scena (ed è in fondo la scena la sua vera dimensione). Non va avvicinato alla tradizione italiana del romanzo in versi, cui superficialmente parrebbe assomigliare (penso alla Camera da letto di Attilio Bertolucci, altra storia di famiglia), ma che in realtà gli è lontanissima. Semmai può far pensare, in campo letterario, alle pagine – magari non alle migliori - del Mondo salvato dai ragazzini: per la ricerca di una comunicazione diretta e popolare, per la volontà di mescolare i generi, per il dialogo nascosto col presente – con la crisi economica al posto del ’68 di Elsa…
Dialogo nascosto, si diceva. Se guardiamo alla cinquina nel suo insieme – sorvolando sulle molte differenze e concentrandoci sulle analogie - l’impressione è che reagisca, appunto, all’overdose di giornalismo e di realtà che ha invaso la letteratura in questi ultimi anni, e di cui abbiamo diffusamente parlato nelle scorse settimane. Quattro libri su cinque sono decisamente e direi orgogliosamente fictional; solo Covacich si attarda nei territori della non fiction, costruendo la sua Città interiore intorno a una immagine personale e multistrato di Trieste. Sembra calare quel tasso di testimonianza e diario che è stato così alto nelle scritture degli anni Zero; mentre resta forte la presenza di un io vagamente autobiografico. Si tratta però di un io in maschera, non egocentrico, all’ascolto di una tragedia ora intima e privata (Sarchi, Di Pietrantonio), ora pubblica e civile (Massini e Covacich).
Storie non necessariamente vere, quindi, ma necessariamente forti, dentro o fuori la grande Storia (L’arminuta si svolge durante gli anni di piombo, ma li riduce letteralmente a un inciso: «In televisione parlavano di nuove leggi antiterrorismo»). Mentre dribblano la quotidianità borghese esplorando vicende a loro modo eccezionali, i libri finalisti – con l’eccezione della Ragazza selvaggia, così inconfondibilmente «Pugno» nei temi e negli ambienti da potersi permettere una lingua cava, fredda e impersonale – cercano simmetricamente di tenersi lontani, almeno a tratti, da quell’italiano standard che per molti scrittori di oggi resta il modo più naturale per esprimersi. Anche questo dato è significativo di una situazione generale: l’alternativa allo stile medio è una coloritura a volte aulica, a volte pittoresca. La via a cui ricorre La notte è la mia voce è quella dell’accensione metaforica, spesso nei dintorni del corpo («La a finale di anima mi rimbalzò sul ginocchio, o forse sull’anca»; «Giorno dopo giorno i danzatori acquisiscono grammi di infinito, un po’ ovunque, dalla testa ai piedi»). Qualcosa di simile anche nell’Arminuta («mi alitava in faccia il caffè che aveva bevuto da poco, misto all’odore delle sue gengive»; «mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati»). Ma Di Pietrantonio, lavora anche sul polo del pittoresco, magari col colore dialettale: un abruzzese liscio e basic, inesistente in natura, che affiora a volte nei dialoghi. Il pittoresco è adatto allo schema della fiaba, e in parte del melòe del feuilleton: L’arminuta riprende alcuni ingredienti da Accabadora, altri, miniaturizzati, dall’Amica geniale – tra questi i tratti della protagonista e narratrice del ciclo: simili il rapporto difficile con la madre naturale (e quindi con il dialetto), l’intesa con la maestra (e con la promozione culturale in genere), il legame ambivalente con la sorella Adriana.
A questo proposito, e per finire, ci sarebbe da riflettere sull’«effetto Ferrante» che comincia a agire sulla nostra narrativa – in modo netto e studiato in Di Pietrantonio, blandamente e credo inconsapevolmente in Sarchi e Pugno (e sarà forse questione di spirito del tempo). Tutte e tre hanno scritto libri incentrati su una sorellanza; tutte propongono eroine aggressive, ribelli, dai caratteri zoomorfi (Dasha, Adriana e la Donnagatto); tutte regalano una misteriosa sparizione femminile (Dasha nella Ragazza selvaggia, Adalgisa nell’Arminuta, la Donnagatto alla fine della Notte ha la mia voce). Molto simili, anzi narrativamente identici, i finali: tre dispersioni anarchiche, analgesiche, liberatorie. Soluzioni cinematografiche, più «viste» che «scritte», da manuale di sceneggiatura: perdersi nella foresta, o sciogliersi nel mare, per ritornare a casa, fuori dalla società.
Sesto di una serie di articoli. I precedenti sono stati pubblicati il 30 luglio, il 6, il 13, il 20 e il 27 agosto
loading...