LE VIE DELLA CRESCITA

Un’Europa sorprendemente hi-tech

di William Echikson

(Marka)

4' di lettura

Da un punto di vista digitale, l'Europa è spesso considerata molto indietro rispetto a Usa e Asia, ma le apparenze ingannano. Secondo un nuovo rapporto di Atomico, la società di venture capital con base a Londra, le start-up europee sono all'avanguardia nell'intelligenza artificiale, sfornando nuovi hub tecnologici e attirando capitali che prima andavano ai settori industriali più tradizionali. Lo scorso anno, l'investimento nella tecnologia europea ha raggiunto la cifra record di 13,6 miliardi di dollari rispetto a 2,8 miliardi nel 2011.

Sono passati i tempi in cui il settore tecnologico europeo era rappresentato dalle attività di e-commerce.

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Oggi l'Europa è culla dell'innovazione capitanata da quella che Atomico definisce la “deep tech”, l'intelligenza artificiale sviluppata da DeepMind di Google. Nel 2015, queste industrie digitali europee emergenti hanno attirato 1,3 miliardi di dollari in investimenti europei a rischio ripartiti in 82 round, rispetto ai 289 milioni ripartiti in 55 round nel 2011.

I nuovi hub tecnologici europei fioriscono nelle città più inaspettate: non più Londra, Berlino e Stoccolma. Secondo Atomico sarebbero Parigi, Monaco di Baviera, Zurigo e Copenhagen le città da tenere d'occhio nei prossimi anni. Parigi starebbe già sorpassando Londra e Berlino in termini di numero e volume di contratti finanziati con venture capital.

Le industrie tradizionali si convertono. Due terzi delle più grandi aziende europee per capitalizzazione di mercato hanno investito in un'impresa hi-tech e, da inizio 2015, un terzo di quelle imprese ha acquisito un'impresa hi-tech.
Anche le imprese straniere si sono messe in moto per sfruttare le possibilità offerte dall'hi-tech europea. Google, Facebook e Amazon hanno annunciato piani di espansione dei loro hub tecnologici europei. L'anno scorso le transazioni hanno superato gli 88 miliardi di dollari rispetto ai 3,3 miliardi del 2014, se si contano anche l'acquisizione da parte di SoftBank di Arm, l'industria inglese di progettazione di semiconduttori, e quella da parte di Qualcomm della Nxp Semiconductors per un valore di 47 miliardi di dollari.

Secondo un altro studio del Boston Consulting Group, molti piccoli Paesi membri della Ue, in particolare i Paesi del Benelux, quelli baltici e nordici, sono più avanti degli Usa in termini di e-intensity, ovvero di infrastruttura IT e accesso a internet, oltre alle imprese, al consumo e alla presenza pubblica delle attività legate a internet.

Questi “innovatori digitali” generano circa l'80% del loro Pil grazie al web, rispetto al 5% dei cinque grandi d'Europa (Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito). La digitalizzazione dovrebbe produrre da 1,6 a 2,3 milioni di nuovi posti di lavoro in più rispetto a quelli che ha fatto scomparire in quei Paesi fra il 2015 e il 2020.

Questo non significa che il settore europeo non abbia debolezze: non è ancora riuscito a creare un colosso tecnologico in grado di fare concorrenza ai giganti della Silicon Valley. Se gli imprenditori europei hanno la stessa facilità dei concorrenti americani nel mettere insieme i fondi per lanciare nuove start-up, le imprese Usa possono contare su un capitale 14 volte maggiore nelle ultime fasi di progettazione, un divario che svanirebbe se i fondi pensione europei stanziassero anche solo uno 0,6% in più del loro capitale negli investimenti a rischio.

E un'altra debolezza legata alla precedente è la mancanza di un mercato unico digitale vero e proprio in Europa. Se negli Usa o in Cina gli imprenditori dell'hi-tech hanno accesso immediato a un mercato immenso, quelli europei devono ancora destreggiarsi attraverso 28 mercati e regimi diversi.

È vero che due anni fa la Commissione europea aveva promesso di creare un mercato unico digitale che secondo le previsioni avrebbe dovuto portare all'economia europea qualcosa come 415 miliardi di euro l'anno. Ma per Hosuk Lee-Makiyama e Philippe Legrain di Open Political Economy Network il mercato unico digitale europeo sarebbe solo «un guazzabuglio di politiche industriali ormai superate, corporativiste e controproducenti che favorirebbero i produttori anziché i consumatori, le grandi anziché le piccole imprese, le industrie tradizionali invece delle startup digitali e quelle europee invece di quelle straniere».

Invece di liberalizzare, la Ue vuole regolamentare: ad esempio, cerca di vietare alle imprese di rifiutare le vendite online (tranne quando insorgono questioni di copyright) o di stabilire prezzi diversi secondo i Paesi. E all'orizzonte si profilano altri scenari pericolosi come il tentativo di regolamentare proprietà, accesso e uso dei dati.

Nonostante questi rischi, il trend nel settore tecnologico europeo è positivo. Il continente sembra vivere un nuovo gusto per il rischio. Secondo Atomico, più dell'85% dei creatori di impresa afferma che lanciare la propria attività è «culturalmente accettabile». Se poi consideriamo l'eccellenza europea nella ricerca approfondita – 5 delle 10 migliori facoltà al mondo di Computer Science sono europee – il boom delle start-up in Europa sembra sostenibile.

Anche dal punto di vista politico c'è di che essere ottimisti. I nuovi protagonisti dell'Europa digitale cominciano a organizzarsi e rappresentano una vera forza con sedici piccoli Paesi della Ue che hanno formato un gruppo pro-web e si sono coalizzati per chiedere alla Ue di proibire l'imposizione dei requisiti di localizzazione dei dati.

Mentre gli Usa stanno perseguendo politiche protezioniste, l'Europa fa passi da gigante come forza economica innovativa che guarda avanti. Non sarebbe ironico se, come sembra probabile, fosse proprio la vecchia e arretrata Europa a trovare il vero potenziale economico di internet?

William Echikson è Associate senior fellow e responsabile del Digital Forum
presso il Centre for European Policy Studies di Bruxelles

(Traduzione di Francesca Novajra)

Copyright PROJECT SYNDICATE, 2017

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