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La tassazione delle imprese finisce spesso al centro del dibattito politico e dell’attenzione mediatica. Prevale la convinzione che le imprese riescano a ridurre il carico fiscale grazie a globalizzazione, strutture finanziarie e societarie complesse, e un capitale sempre più mobile e intangibile. Una tendenza che i Paesi avanzati avallano, riducendo le aliquote e accordando sgravi. Così l’aliquota legale media dei Paesi Ocse (comprensiva di tassazione locale) è scesa dal 32,2% del 2000 al 23,7% odierno. Anche l’Italia, pur con una tassazione tra le più elevate, l’ha ridotta nel periodo considerato dal 41,25% al 27,8% (Ires + Irap). E ci sono indicazioni (Il Sole 24 Ore del 16 marzo) che il governo vorrebbe ridurla di altri 4 punti nei prossimi anni. Gli organismi internazionali segnalano il pericolo di erosione del gettito fiscale e invocano accordi per un’armonizzazione della tassazione delle imprese.
L’analisi dei dati Ocse mostra però un quadro diverso. Il gettito delle tasse sulle imprese in rapporto al Pil, infatti, oscilla (in sintonia con Borsa e ciclo economico) attorno a una media stabile nel tempo: per i Paesi Ocse era in media del 2,9% nel 2016 (ultimo dato disponibile), in linea con il 3,2% del 2000 e il 2,5% del 1990 pre-globalizzazione. L’ipotesi di erosione non sembra suffragata dai dati.
La conclusione non cambia se si calcola la proporzione rispetto al totale delle entrate tributarie: 8,1% la media Ocse nel 1990, 9,3% nel 2000, 9% nel 2016. Il dato evidenzia la sproporzione tra l’attenzione che la tassazione delle imprese riscuote, nonché la complessità della sua normativa, e il suo peso nel gettito complessivo, sempre inferiore al 10 per cento. Il fisco italiano, che tassa le imprese con aliquote sopra alla media, incassa però da queste parecchio sotto alla media: il 5% nel 2016 rispetto al 9% della media Ocse. Una strategia perdente rispetto a Regno Unito, Paesi Bassi, Irlanda, Norvegia, Svizzera, o Lussemburgo che con aliquote basse e condizioni favorevoli allargano la base imponibile attirando capitali, e riuscendo così a raccogliere gettito mediamente di oltre un punto percentuale di Pil in più dell’Italia. Lasciando da parte i pregiudizi ideologici, basse aliquote, norme semplici e fisco amico vogliono dire maggior gettito dalle imprese e quindi minori imposte per i cittadini contribuenti.
Pregiudizi che derivano dalla confusione del reddito di impresa con quello di azionisti e creditori. L’impresa produce dei cash flow che distribuisce interamente agli azionisti sotto forma di dividendi e incrementi di patrimonio, e ai creditori sotto forma di interessi. Non è quindi un beneficiario finale del reddito che produce e in quanto tale non dovrebbe essere tassata. Tassazione che invece dovrebbe ricadere interamente sugli individui percettori ultimi del suo reddito.
Se nel mondo si tassano le imprese, è per convenienza: più facile tassare indirettamente il consumo attraverso chi i beni li produce, o accertare il reddito di impresa rispetto a quello degli individui che lo ricevono. Ma è una tassazione inefficiente perché sussidia il debito e tassa anche il profitto necessario a remunerare adeguatamente il capitale. La globalizzazione poi ne ha fortemente ridimensionato la convenienza. Pensate al caso di un azionista che risiede nel Paese A, controlla una società con sede in B, che produce in C, usando tecnologia di società in D, per esportare in E. Quale è il sistema ottimale di tassazione? E per quale Paese?
Invece di stigmatizzare la strategia dei Paesi che attraggono i capitali con bassa fiscalità e regole semplici, sarebbe ora che i governi italiani capissero che è quella la strada da seguire, oltre a spostare la tassazione dalle imprese ai percettori del suo reddito. Nell’interesse di tutti i contribuenti.
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