Libri

Un “giallo antiquario” tra donne e opere d’arte

Nel libro di Arnaldo Pavesi “Tredici gocce di cera rossa” il furto d’arte è il tema da cui prende movimento il meccanismo narrativo.

di Antonio Armano

3' di lettura

“Mi avvicinai sconcertato, convinto di essermi sbagliato. No, non era stata una svista, erano due milioni e mezzo di dollari sotto forma di una copia di grandi cavalli in terracotta invetriata, modellati in Cina durante la dinastia Tang. I più belli che avessi mai visto ed erano appoggiati con noncuranza per terra, in un angolo della sala. Dalla parte opposta, sempre a terra, in un angolo della sala, una coppia di Potiches in ceramica di Celadon, dal caratteristico color verde giada, anch’esse di fattura e dimensioni eccezionali e più o meno dello stesso valore. Ero allibito, due pezzi straordinari, degni di figurare in un museo, alla mercé del primo sprovveduto che gli andasse a sbatter contro. Se questo era l’inizio, chissà quanti e quali tesori avrei scoperto procedendo nell’inventario. Mi sedetti, incurante della polvere depositata ovunque, una patina opaca, che come un sudario rendeva indistinta ogni cosa”.

Antiquario milanese

Ludovico Boringhieri è un antiquario milanese. Non appartiene allo stereotipo da romanzo giallo classico che vuole questa figura professionale come uno strano soggetto dotato di doppio fondo segreto e giri illegali nell’ombra. Spesso anziano e polveroso. Perverso come chi ha a che fare con collezionisti e collezioni... Un po’ come il tedesco che usa la bottega come copertura della sua attività di cospiratore a Lisbona in un romanzo di Frederic Prokosch... Il Boringhieri, “alla soglia dei cinquant’anni”, è atletico, ama la buona cucina e le motociclette, è molto sensibile al fascino femminile e ascolta la musica classica, ma soprattutto la musica che va dagli anni ’50 agli anni ’70, da Since I don’t have you dei Guns n’ Roses a Unforgettable e Fascination di Nat King Cole, dalla Tragica di Mahler a Don’t worry be happy di Bob Marley. All’occasione anche su iPhone.

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Per diversi aspetti ha preso dal suo creatore, l’antiquario Arnaldo Pavesi. Galleria in zona Pagano, dove si trovano dimore altoborghesi d’epoca a Milano, figlio di un antiquario, nipote di una commerciante di pietre preziose, Pavesi ha la passione della moto - ha una Ktm 1290 Super Adventure – e della cucina con una predilezione per la preparazione dei secondi: goulash, casoeûla, roast-beef all’inglese, ma anche della musica, che attinge da una collezione di tremila vinili. Mentre si sta godendo un momento di tranquillità il Boringhieri riceve una telefonata. Lo cercano per una perizia. Nel giro di poche ore viene salvato dalla routine milanese e si ritrova dentro a quella “bolla magica”, a quella “immensa macchina del tempo” che è Venezia, tra l’odore salmastro di laguna e quello disturbante del motore di un motoscafo Riva, diretto a palazzo Bergamin. E’ stato convocato da Erik, uno dei quattro figli che il proprietario ha sparso per il mondo. Il conte Alfonso Bergamin se ne è andato dopo essersi ritirato negli ultimi anni e avere posto fine a una vita dissipata e segnata dalla passione per le donne. Sul palazzo che porta il suo nome illustre e discusso nome grava un’ipoteca allo scadere della quale tutta l’eredità sarà perduta... Aggirandosi tra le stanze della casa, il Boringhieri si rende conto che le cornici dei quadri non corrispondo ai segni lasciati sui muri. Perché in fondo l’antiquario è per natura un investigatore, uno cercatore di indizi e piste, un ingranditore di dettagli, un frequentatore di ipotesi... Grazie a vecchie foto in bianco e nero di ormai lontane feste si rende conto che sono spariti quadri la cui vendita potrebbe sistemare le pericolanti finanze di famiglia: i Guardi, Canaletto, Marieschi... Il furto d’arte è il tema da cui prende movimento il meccanismo narrativo.

Il libro, intitolato, Tredici gocce di cera, scorre veloce, dominato dall’azione, senza digressioni ecfrastiche, nella caccia alle tele perdute, con momenti di pausa interrotti dal ritorno alla realtà: “Soddisfatto varaci la soglia della chiesa. Il profumo di cera e d’incenso era molto forte e il mormorio delle suore che recitavano il rosario nei primi banchi produceva una sorta di litania ipnotica. Avanzai nella navata laterale e mi sedetti in modo da osservare di scorcio, nell’abside a destra, il Giudizio universale di Tintoretto. Un’opera dalle dimensioni gigantesche, caratterizzata da un numero incredibile di personaggi, stretti gli uni agli altri e avviati in due schiere verso destini opposti: i salvati che si elevano verso Dio e i dannati che, trascinati da un fiume in piena, precipitano nella pena eterna”.

A parte qualche puntata in chiesa o al museo il Boringhieri non perde occasione di godersi la vita in mezzo al vortice della frenesia investigativa dentro cui è precipitato. Non manca una componente erotica. La carne tra i canali è morbida e all’ombra dei palazzi aviti come quella delle moeche, i granchietti ancora spogli del guscio, catturati durante la muta e selezionati dai “moecanti”.

Arnaldo Pavesi, Tredici gocce di cera, il Ciliegio edizioni, pagg. 382, 18 euro

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