Un Piano Marshall targato Berlino
di Gianni Toniolo
3' di lettura
Il Primo ministro spagnolo Pedro Sanchez chiede un Piano Marshall per l’Europa. La presidente Ursula von der Leyen dice che la Commissione ci sta lavorando. Ma nessuno dei due ha in mente un “piano” simile a quello lanciato ad Harvard il 5 giugno 1947
Non potrebbe essere diversamente. L’Europa di allora non è quella di oggi. È utile, tuttavia, riandare alle caratteristiche dello European Recovery Program (il nome ufficiale del Piano Marshall) per vedere se talune di esse siano adattabili alla situazione odierna.
George Marshall, la mente che diresse le colossali operazioni logistiche degli Stati Uniti durante la guerra, nominato Segretario di Stato, avviò il proprio piano dicendo ai collaboratori: «Sinora abbiamo sbagliato a impostare la ricostruzione Paese per Paese, dobbiamo adottare un approccio europeo». Con questa intuizione, il Piano si resse su due gambe complementari: quella economica e quella istituzionale, forse la più importante e la più dimenticata.
La prima gamba era fatta di doni (87%) e prestiti (13%) a 15 Paesi europei per un totale, in 4 anni, di quasi 13 miliardi di dollari (circa 140 miliardi al potere d’acquisto attuale).
Nel primo anno (1948-49) all’Italia sconfitta arrivarono dollari in quantità pari a circa il 5% del Pil. I trasferimenti si ridussero poi rapidamente. Vi erano, inevitabilmente, condizioni all’uso dei fondi Marshall: tra l’altro l’obbligo di acquisti in dollari soprattutto sul mercato nordamericano. Si trattò di cifre importanti, anzitutto perché fornivano valuta per importazioni essenziali, ma non tali da cambiare il corso della storia, se fosse mancata la seconda gamba, quella istituzionale, volta a favorire la cooperazione tra i Paesi europei. Con la creazione dell’Oece (antesignana dell’odierna Ocse), gli americani misero attorno a un tavolo i rappresentanti di Paesi che fino a tre anni prima si erano mortalmente combattuti perché concordassero la distribuzione dei fondi Marshall. Nel 1950, i dollari e la persuasione degli Stati Uniti fecero nascere l’Unione europea dei pagamenti che preparò la strada alla convertibilità delle monete tra loro. Anche il Piano Schuman, dal quale nacque la Comunità economica del carbone e dell’acciaio, fu favorito dal potere di persuasione (soft power) degli Stati Uniti.
Possiamo oggi imparare qualcosa da quella, vicenda sempre richiamata e non sempre ben compresa? L’Europa dell’immediato dopoguerra avrebbe faticato ad avviarsi sulla via della cooperazione e, in taluni casi, della democrazia, se il governo degli Stati Uniti non avesse perseguito l’interesse nazionale in un’ottica di lungo andare, superando l’ostilità di larghi segmenti isolazionisti dell’opinione pubblica. È questa forse la considerazione più importante suggerita dal richiamo al Piano Marshall.
Comprensibili e legittimi interessi nazionali rendono oggi difficile la cooperazione tra Paesi europei, benché stretti nella medesima morsa, anche perché le istituzioni comuni, nate in un mondo diverso dall’attuale, si dimostrano inadeguate a gestire una crisi priva di precedenti. La ricostruzione dell’Europa, dopo la fine della pandemia, richiederà non solo risorse (prestiti e anche un po’ di doni) in dimensioni maggiori di quelle del Piano Marshall originale, ma anche istituzioni in grado di gestirle in modo cooperativo, perché il nuovo debito non sia fonte di altre divisioni, mettendo a rischio anche la democrazia.
I giochi la cui soluzione ottimale è di tipo cooperativo sono risolti dalla presenza di un leader. Gli Stati Uniti ebbero sia la forza sia la visione per essere tali nel 1947. Nell’Europa di oggi, questo ruolo può essere svolto solo dalla Germania. Berlino ha un interesse oggettivo alla stabilità economica, sociale e democratica dell’Unione europea. Ha risorse da mettere sul tavolo. Dovrebbe unirle a un programma di adeguamento della istituzioni comunitarie: anzitutto un vero bilancio comunitario, dotato di risorse proprie, approvato dal Parlamento di Strasburgo e una modifica dello statuto della Bce che lo avvicini a quelli delle maggiori consorelle mondiali. Le risorse finanziarie che la Germania dovrebbe mettere in campo sarebbero relativamente limitate perché il suo impegno politico a realizzare riforme istituzionali consentirebbe di attivare i diversi strumenti di cui già oggi dispone l’Unione senza creare fratture insanabili, favorire i populismi, mettere a rischio la stessa democrazia.
La Germania, prospera e democratica di oggi ha la visione e la capacità politica di assumere in Europa una leadership simile a quella degli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra? È una domanda alla quale è oggi facile rispondere negativamente. Ma domani, sulle macerie economiche e sociali del dopo virus? Senza aspettare quel momento, dovremmo dire agli amici tedeschi: perseguite con lungimiranza il vostro interesse nazionale, accettate le responsabilità che vi consegna la vostra dimensione demografica ed economica. Quanto a noi italiani, non dobbiamo certo andare con il cappello in mano, ma solo comprendere a nostra volta che l’interesse nazionale è oggi perseguibile solo in un’Unione che esca rafforzata e rilanciata dalla prova attuale, anche a costo di accettare un po’ di soft power tedesco che ci aiuti ad aiutare noi stessi.
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