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L’Europa deve cambiare modello produttivo per entrare nel futuro

L’attuale modello produttivo dell’Unione europea (Ue), dominato nel nuovo millennio dalla Germania, è stato plasmato in un periodo predigitale

di Marco Buti e Marcello Messori

(CARLO CARINO)

4' di lettura

L’attuale modello produttivo dell’Unione europea (Ue), dominato nel nuovo millennio dalla Germania, è stato plasmato in un periodo predigitale. I tratti tipici di questo modello sono sette: (i) la forte presenza di imprese manifatturiere con tecnologie solide ma mature; (ii) la prevalenza di piccole imprese spesso con discreta organizzazione ma scarsa propensione innovativa, capaci di presidiare spazi di specializzazione nelle catene del valore o – nel peggiore dei casi – di sfruttare posizioni protette di rendita; (iii) una dipendenza da fonti tradizionali di energia, concentrate in aree geografiche limitate per minimizzare i costi di breve periodo; (iv) una propensione all’aggregazione, spesso difensiva e nazionale, più nei servizi (anche finanziari) e nelle produzioni intermedie che in quelle dei beni finali; (v) una persistente e diffusa arretratezza nell’offerta di servizi sia pubblici che privati; (vi) una remunerazione delle risorse umane che, in quanto subordinata al grado di efficienza aziendale (o settoriale), indebolisce gli incentivi imprenditoriali per l’attuazione di innovazioni a sostegno della produttività; (vii) conseguenti internalizzazioni delle catene del valore guidate dalla compressione dei livelli salariali più che dall’efficienza produttiva e dal connesso controllo del costo del lavoro per unità di prodotto.

Tale modello della Ue getta dubbi sull’effettiva integrazione del mercato unico europeo che, pure, rappresenta un punto di forza dell’area. A maggior ragione, esso fa emergere le debolezze dei mercati finanziari. Eccezion fatta per le poche grandi società europee integrate a livello internazionale, le imprese della Ue si finanziano soprattutto mediante i profitti accantonati, il credito bancario e altre forme tradizionali di debito. Nonostante la forte espansione registrata dai mercati europei dei corporate bond dopo la crisi del 2007-09, l’apertura delle imprese della Ue rispetto agli strumenti finanziari di mercato e – soprattutto – rispetto agli strumenti (anche non di mercato, quali le varie forme di private equity) più idonei a sostenere processi innovativi è una frazione di quella che caratterizza le imprese statunitensi.

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La passata dinamica del modello produttivo della Ue si è fondata sulle esportazioni nette allocate all’esterno dell’Euro area (Ea) e/o della Ue.

In particolare, fra la fine della crisi finanziaria internazionale e lo scoppio della pandemia (2020), i surplus nelle partite correnti dell’Ea hanno registrato forti incrementi a seguito di una drastica compressione della domanda interna negli stati membri più fragili non compensata da incrementi della domanda aggregata nei paesi più “forti” (si veda il grafico in pagina). Pertanto, a livello macroeconomico, l’andamento di questi surplus è un indicatore di tassi di risparmio eccedenti i tassi di investimento più che una misura della forza competitiva dell’area.

Nel corso degli anni Dieci, la Ue e – soprattutto – la Ea hanno “sottratto” domanda all’economia globale e hanno realizzato quegli inadeguati tassi di accumulazione che contribuiscono a spiegare i ritardi europei nel digitale e nell’intelligenza artificiale a Stati Uniti e Cina, che abbiamo illustrato in altri articoli. Insomma, le economie dell’Ea e della Ue, a partire dalla Germania, hanno privilegiato le traiettorie tipiche di una piccola economia piuttosto che la strategia propria a una delle aree economiche preminenti nei mercati internazionali. Inoltre, come sottolineato dalle recenti previsioni della Commissione, vi sono nuovi rischi di divergenza all’interno della Ue: la relativa debolezza dell’economia tedesca si ripercuote sui paesi più integrati nelle sue catene del valore (Paesi Bassi e Italia).

Sarebbe errato sostenere che, a livello microeconomico, i risultati produttivi europei non siano stati anche il frutto di efficienti adeguamenti tecnologici. Pur se con più di un lustro di ritardo e con modalità nazionali così differenziate da accrescere gli squilibri interni all’area, nel corso del decennio Novanta molte imprese grandi e medie della Ue hanno adottato le novità dell’ “information and communication technology” (Ict), introdotte nelle economie statunitensi e asiatiche dalla metà degli anni Ottanta. Al riguardo, le innovazioni realizzate da vari stati membri sono state rilevanti. Eppure, come si è già detto, tali progressi non sono bastati a evitare ritardi drammatici della Ue rispetto agli Stati Uniti e alla Cina sulle frontiere innovative del digitale e dell’intelligenza artificiale.

Le crescenti tensioni geopolitiche e tecnologiche fra Stati Uniti e Cina e i ritardi innovativi della Ue rischiano di disegnare mercati internazionali dominati da conflitti bilaterali, rispetto ai quali l’economia europea – senza un cambio di passo - sarebbe condannata a ruoli marginali e a un progressivo indebolimento del proprio modello sociale. La capacità di sostenere un generoso stato sociale e una marcata regolamentazione, propria alla seconda più sviluppata area economica mondiale, è arrivata al capolinea. Una demografia stagnante ha accentuato i problemi di crescita. Il benessere europeo può essere salvaguardato solo se la Ue saprà costruire un modello produttivo più competitivo. Gli ingredienti di questo nuovo modello sono noti perché alla base dell’iniziativa adottata in risposta allo shock pandemico: Next Generation–EU. Si tratta della tripla transizione “verde”, digitale e sociale. La strada per la realizzazione di tali transizioni è, però, impervia. Come diremo meglio in un prossimo articolo, è necessario rafforzare la capacità fiscale europea e raccordarla a un’allocazione efficiente delle risorse (pubbliche e private) dei singoli stati membri.


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