Un “no” non è un fallimento: ce lo insegnano Van Gogh e Michael Jordan
Il primo non ha venduto un quadro mentre era in vita, il secondo è stato invitato a lasciare il basket da Coach “Pop” Harris ai tempi del college
di Guido Tolomei *
4' di lettura
Quando si approccia il mondo della vendita, spesso, si ha un’unica preoccupazione universale: sentirsi dire di “no”. La negazione è un incubo ancestrale, qualcosa con cui combattiamo fin da quando non abbiamo memoria e da quando poi siamo coscienti ci fa sentire respinti. Mina la nostra libertà, la sicurezza in noi stessi, ci imbarazza, ci fa sentire sbagliati e spesso ci mortifica. Ma veramente un “no” è un sentimento negativo verso la nostra persona? Uno segno di disappunto verso la nostra figura professionale? Si sa, vendere e farsi amare sono le due cose più difficili al mondo.
Ma non confondiamoci, non vanno per forza insieme. Si toccano, si guardano, ma esiste luce nello spazio tra la due. Se è vero che spesso le cose sono esattamente quello che sembrano, alle volte la realtà sta proprio tra le righe e sta a noi saperle leggere ma soprattutto interpretare.
Nel commercio, la vendita può essere una necessità subitanea da parte di chi acquista (domanda) o un’intuizione estemporanea da parte di chi vende (offerta). Nel primo caso c’è l'attenzione e la tempestività di un professionista, sia chiaro, fondamentale per svolgere bene quello che oggi, senza alcun titolo richiesto all’ingresso, può essere sulla carta il sottovalutato e bistrattato lavoro di tutti. Nell’altro, la creatività e il disegno di una persona che ama ciò che fa e gode della fiducia di chi lo ascolta, condividendone una visione.
Ecco la luce tra i due corpi: il successo dell’esigenza del momento a cui è bastato il professionista, e il successo dell’idea che ha premiato la persona. E il processo impone che per vendere qualcosa devi tu per primo amare quella stessa cosa: comprereste mai un maglione da un commesso a cui non piace? Un’auto da un venditore che non ve la racconta come si deve? Quindi, amiamo ciò che vendiamo? Se la risposta è “sì”, non stanchiamoci di studiarla, capire fin dove la possiamo portare, come possiamo darle i nostri colori, la nostra forma, senza per forza esasperarne i confini e la creatività che il mercato senza fondo di oggi sembra imporci per farsi notare.
Impariamo a metterci in gioco, impariamo ad esporci e a farci dire di “no” dimostrando di andare oltre alla necessità, oltre ai dettami classici che il manuale del buon commerciale impone. Alle volte è “no” perché in quel momento non si può, ma lo si dice a malincuore, così come alle volte è “sì” perché non si può fare diversamente, ma a denti stretti, magari aspettando solo la prossima occasione per fare a meno di te, e il risultato, per carità, è tutto ciò per cui lottiamo e facciamo fatica, ma impariamo a leggerlo come si deve. Divertiamoci. Affianchiamo la persona che siamo al professionista che vogliamo diventare.
Vendere vuol dire esporsi e allora impariamo ad allenare le nostre figure professionali a rischiare, a finire in spam e a non essere capiti. Impariamo ad essere autocritici, a migliorarci e a non accontentarci, ma anche a fermarci e avere rispetto di noi stessi. D'altronde il buon senso viene dall’esperienza… ma la stessa esperienza la si fa quando il buon senso lo appoggi un attimo lì, sul comodino.
Un progetto, un’idea, un disegno o una proposta curata, coccolata e ben pensata trasmette amore e rispetto per chi, il proprio prodotto, lo ama e lo cura quanto tu il tuo, anche se poi non verrà premiata. I sentimenti creano movimento e il movimento è la base dello scambio, l’immobilismo la fine.
Non dobbiamo avere paura di sentirci giudicati perché tanto chi lo fa, verrà giudicato a sua volta. Ci hanno insegnato che un “no” è un segno blu della maestra sul compito in classe, un errore personale, definitivo e inappellabile ma difficilmente qualcuno ci ha spiegato poi che quel “no” può rivelarsi un errore per chi te lo ha dato, così come per un “sì” avventato, e non il contrario. Non possiamo e non dobbiamo ridurre tutta la nostra autovalutazione personale a un sì o un no di qualcun altro.
Clifton “Pop” Harris, per parlare di un professionista a caso, ai tempi del college, suggerì a Michael Jordan di dedicarsi ad altro, come un corso di economia domestica, ma di lasciar perdere la pallacanestro. Gli preferì tale Harvest Leroy Smith Jr. che non mi risulta poi essere proprio finito nella Hall of Fame del basket dalla porta principale (insieme, tra l’altro, allo stesso Pop, nda). Non tutto nella vita è chiaro, scalpellato negli astri, altrimenti Van Gogh un quadro in vita lo avrebbe anche venduto: smettiamola di sentirci guardati dall’alto verso il basso e non dimentichiamoci mai che in azienda tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile.
Salvo forse un buon commerciale, perché presto o tardi ci sarà sempre bisogno di qualcuno che sappia vendere qualcosa: da un brand passando per un'idea e finendo proprio a sé stessi. E più i tempi saranno duri e più la necessità sarà vitale.
* Consulente di Newton SpA
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