Intervista a Sara Fortunati

«Un nuovo design al servizio delle imprese»

La direttrice del Circolo del design: la creatività ha un ruolo centrale per ripensare il sistema post-Covid Torino è focalizzata sull'innovazione sociale mentre a Milano prevale ancora l'approccio legato al prodotto

di Giovanna Mancini

La sede. Il Circolo è ospitato all'interno di Palazzo Costa Carrù della Trinità, circa 500 mq con sala mostre, sala talk, cortile e biblioteca del design

4' di lettura

«La vera sfida, in questo momento, non è tanto progettare nuovi prodotti, ma riprogettare il quotidiano, la vita delle persone. Non gli oggetti, ma il modo in cui ci muoviamo nelle città, ci mettiamo in relazione tra di noi e con le risorse del pianeta. E il design può avere un ruolo importantissimo per cercare nuove soluzioni».

Sara Fortunati è una giovane donna piena di risorse e di passione: per il design, soprattutto, inteso non come creatività fine a se stessa, ma come cultura del progetto al servizio del territorio. Proprio in questa direzione ha impostato il lavoro del Circolo del Design di Torino di cui è direttore dal 2019: fondato nel 2015 con il sostegno della Compagnia di San Paolo e della Camera di Commercio della città, il Circolo promuove attività culturali e l’incontro tra mondo del design e mondo dell’impresa.

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Che impatto ha avuto, e avrà, la pandemia sul mondo del progetto?
Ha reso ancora più centrale il ruolo del design – inteso come fenomeno legato non soltanto al prodotto, ma anche ai processi produttivi, alla comunicazione, alle strategie aziendali – come strumento per migliorare la vita delle persone e contribuire allo sviluppo di un territorio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di ripensare e riprogettare il nostro sistema: gli spazi fisici, prima di tutto, a cominciare dalle scuole e dai luoghi del lavoro, ma anche i servizi e i modelli produttivi. La missione del nostro Circolo è proprio stimolare un dibattito culturale su questi temi e organizzare attività capaci di agire sul territorio, facendo da enzima per l’adozione di pratiche innovative.

Avete già cominciato a ragionare sul futuro?
Durante il lockdown abbiamo organizzato una serie di incontri online per capire quali risposte concrete la cultura del progetto può dare alla situazione attuale, invitando a confrontarsi designer, architetti, intellettuali, esperti e critici della materia. Ora ripartiamo, riaprendo le porte al pubblico, con diverse attività che in parte erano già state pensate precedentemente al Covid, ma che abbiamo rielaborato tenendo conto di quello che è successo.

Può farci qualche esempio?
A metà mese partirà il progetto Ask To Design, in collaborazione con la Camera di Commercio e il Politecnico di Torino, che ha l’obiettivo di creare un dialogo tra i designer e gli studi di progettazione con le piccole e medie aziende del territorio. Un territorio caratterizzato da moltissime realtà che, nel tempo, hanno sviluppato una grande cultura del fare, ma mancano di quella visione di sistema e di quella capacità di lettura del contemporaneo che il design può dare loro.

Un altro tema molto importante è il ripensamento degli spazi collettivi.
Sì, e anche su questo abbiamo riflettuto. In ottobre avvieremo un corso di formazione per progettisti professionisti, organizzato in collaborazione con la Onlus torinese, che si interroga sull’accessibilità dei musei. Il corso è incentrato sulle forme di inclusione e per questo è stato affidato a Peter Kerkel, portavoce internazionale del progetto Design For All. I progettisti saranno invitatati a ragionare sull’accessibilita dei luoghi d’arte dal punto di vista degli spazi, dell’acustica e della comunicazione visiva, partendo dal caso di Palazzo Madama, a Torino.

Infine, il fronte dei servizi...
Anche qui il design avrebbe davvero moltissimo da dire, come già accade in altri Paesi, ma in Italia siamo ancora indietro. Eppure abbiamo avuto degli esempi importanti, come quello dell’Interaction Design Institute di Ivrea promosso da Olivetti e Telecom Italia, attivo tra il 2001 e il 2005, che studiava il modo di relazionarsi tra l’uomo, le macchine e gli strumenti digitali. A quell’esperienza, di grande eccellenza ma poco conosciuta ai non addetti ai lavori, dedichiamo una mostra che aprirà in dicembre.

Lei è originaria di Milano, ha padre di Saronno e madre finlandese: come nasce il legame con Torino?
Dopo la laurea in Lettere alla Statale di Milano, ero in cerca di cambiamento e un giorno, mentre mi trovavo a Torino per le Olimpiadi invernali del 2016, ho letto sul giornale che la città era stata nominata World Design Capital per il 2008. Ho mandato il curriculum e sono stata assunta come responsabile della comunicazione. È stata un’esperienza incredibile: in un tempo relativamente condensato mi ha aperto mondi e una catena di relazioni nazionali e internazionali. Tanto che, al suo termine, assieme a Paola Zini abbiamo pensato che non potesse essere dispersa e perciò abbiamo fondato Operae, il Festival del design autoprodotto e indipendente. Dopo otto edizioni abbiamo deciso che quell’esperienza aveva fatto il suo corso e ho deciso di cambiare nuovamente. È nata la mia seconda figlia e poi è arrivata la proposta di guidare il Circolo.

La capitale italiana del design è Milano o Torino?
Giocano due partite diverse: Milano compete con metropoli come Londra o New York. Torino si confronta con città più piccole, ma ha molto da dire e da dare sul design. Lo dimostra il fatto che ha ricevuto nel giro di pochi anni due nomine internazionali molto importanti: quella di World Design Capital nel 2008 e quella di Città Creativa Unesco del Design nel 2015. Per anni il mondo del progetto torinese è stato legato all’automotive e forse proprio da qui si è sviluppato un approccio alla creatività meno legato al prodotto, come nel caso del design milanese, e più al mondo digitale, alla comunicazione, ai servizi, anche in una chiave di innovazione sociale che è caratterizza da sempre questo territorio.

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