Un nuovo paradigma di business per un futuro più equo e sostenibile
Esistono strumenti e standard rigorosi per misurare la creazione di valore sociale per tutti gli stakeholder
di Regenerative Society Foundation
4' di lettura
Siamo una coalizione multilaterale e globale di imprenditori, accademici, policy maker e organizzazioni non profit, nata nell’ottobre del 2020 per promuovere la transizione a un cambio di paradigma socioeconomico, da estrattivo a rigenerativo.
Viviamo una fase in cui la nostra società è diventata sistemicamente insostenibile, e alla ribalta si pone il tema ricorrente su quale debba essere il ruolo del settore privato.
Vorremmo partire da quello che è considerato tuttora il padre della teoria manageriale, Peter Drucker, il quale distingueva le responsabilità dalle performance dell’impresa, sostenendo che tra le due c’è un trade off. La nostra interpretazione del suo pensiero è che il profitto, pertanto, non deve essere il massimo possibile, bensì quanto basta a coprire i costi e i rischi dell’azienda. Obiettivo ultimo dell’impresa per Drucker è la sopravvivenza della stessa, che a tal fine deve definire degli obiettivi relativi al proprio impatto sociale e ambientale.
Un secondo studioso, considerato il padre della corporate strategy, Michael Porter, aveva inizialmente sposato la teoria dello shareholder value, che proponeva la massimizzazione del valore d’impresa (diverso dal profitto): il compito primario, secondo il “primo” Porter, sarebbe dunque massimizzare il valore per gli azionisti (cioè i profitti futuri). A seguito della crisi finanziaria del 2008, però, Porter – dichiarandosi pentito per aver alimentato tanta avidità – abbraccia la teoria dello shared value, nel celebre articolo pubblicato sulla Harvard Business Review nel numero di gennaio/febbraio 2011, in cui afferma che un’impresa deve perseguire il miglioramento della qualità della vita per tutti i portatori d’interesse (stakeholder), considerando il profitto come un mezzo e non come un fine. A noi sembra molto logico anche dal punto di vista economico che l’impresa non possa sottrarsi a delle responsabilità verso la società e l’ambiente, per due motivi: perché danneggiandoli ridurrebbe le sue stesse possibilità di sviluppo, e poi perché, producendo il settore privato circa i due terzi del Pil, è il solo ad avere la massa critica per mettere in atto il cambiamento necessario a migliorare la qualità della vita dei cittadini e delle comunità. Riteniamo che questo sia il principio dell’etica d’impresa, che non si limita a quanto prescritto dalla legge, ma – come affermava già Aristotele nella sua teoria della giustizia reciproca – agisce in simbiosi con la società, invece che come parassita di essa.
Dal punto di vista finanziario, non esistono distinzioni tra il modello della shareholder primacy e quello della stakeholder company, e dunque non vi è un sacrificio reale: infatti, il valore di un’impresa è dato dai suoi flussi di cassa attualizzati al costo medio ponderato del denaro (Weighted average cost of capital, o Wacc), il quale incorpora il famoso coefficiente di rischio Beta, tanto più elevato quanto lo è il rischio stesso. Ecco perché molte aziende sostenibili hanno un valore superiore di altre, che magari appaiono più performanti sotto il profilo del profitto, ma sono più rischiose. Di questo la comunità finanziaria e i regulator sembrano ormai consapevoli, tanto che stiamo assistendo a un vero proprio boom del reporting Esg. Il filosofo e premio Nobel per l’Economia Amartya Sen mette a fuoco i fondamenti di questo approccio, distinguendo il concetto di sviluppo da quello di crescita. Il tema è rilevante, perché nel cosiddetto Antropocene, l’era iniziata con la prima rivoluzione industriale, a suon di crescita abbiamo ampiamente superato i cosiddetti planetary boundaries. La crescita del capitale economico è infatti andata a discapito del capitale naturale, che però è quello – non dimentichiamolo – che ci dà da vivere sul pianeta Terra. Il concetto di sviluppo introdotto da Sen implica il parallelismo tra il progresso socioeconomico e quello socioecologico. Per superare la succitata insostenibilità sistemica, la società tutta, e dunque in primis l’impresa, deve oggi focalizzarsi sulla transizione dal modello passato e presente – che ha estratto e depauperato il capitale naturale – verso un modello rigenerativo, che lo preservi e lo ripristini: dalla transizione energetica, all’agroecologia e alla rigenerazione urbana, con conseguenti ricadute sul piano del benessere, della salute e della felicità dei cittadini. Papa Francesco nella Laudato si’ ha evidenziato che «la crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita», rinnovando l’imperativo a evolvere verso paradigmi di business che creino valore sia per le persone che per il pianeta. Questa consapevolezza, nemmeno tanto nuova, è covata sotto la cenere, perché la misurazione e la contabilità applicate all’impresa su questi temi sono state inadeguate. Infatti, se le attività economiche avessero opportunamente contabilizzato anche i costi occulti ambientali e sociali – la cui omissione ha permesso loro di generare profitti che si potrebbero definire in parte “illegittimi” – molte di quelle che risultavano performanti non sarebbero state altrettanto profittevoli. La Regenerative Society Foundation ritiene dunque che il dovere morale di un’impresa sia innanzi tutto alimentare progresso e prosperità per tutti, creando a tal fine profitto sostenibile, senza danneggiare società né ambiente e senza compromettere il futuro delle generazioni che verranno dopo di noi. Per accompagnare questa transizione, esistono già oggi standard e strumenti robusti che misurano – con lo stesso rigore finora riservato alle performance economiche – la creazione di valore sociale e ambientale per tutti gli stakeholder, oltre a modelli di governance aziendale, come le Società Benefit (già adottati da oltre mille aziende italiane) che consentono di bilanciare profitto e impatto positivo.
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