Uno scrittore e il suo lusso

Un paio di scarpe tra me e il mondo: il bello di camminare nella natura

Il rapporto speciale che s'instaura con un oggetto che accompagna i momenti speciali della propria vita. Come percorrere a piedi 650 chilometri

di Tim Parks

4' di lettura

“Io sono ciò che mi sta intorno”, scrive Wallace Stevens nella poesia Theory. Non ammette uno scarto tra se stesso e gli oggetti. Non sono rappresentati nella sua testa, in una versione soggettiva distinta dalla realtà di fuori. Piuttosto la sua coscienza è quegli oggetti con cui il corpo è in rapporto. È sorprendente quanti scrittori abbiano avuto quest'intuizione. “Quelli che chiamiamo dentro e fuori”, osserva Beckett in una lettera a Georges Duthuit “sono una sola e unica cosa”. Anche Virginia Woolf lo pensa. “Lei essendo parte”, scrive della signora Dalloway, “degli alberi di casa sua, di quell'edificio laggiù… si dispiegava così lontano, la sua vita, lei”. “Ogni attimo… rinasco”, così Pirandello conclude Uno, nessuno e centomila, “vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori”. Ma ha senso una tale visione della realtà?

Oggi vorrei parlare di un oggetto o, piuttosto, due oggetti che mi sono diventati sorprendentemente cari nell'estate del 2019. Avevamo deciso, io e la mia compagna, di ripercorrere, passo per passo, tutta a piedi, la ritirata di Garibaldi dopo il crollo della Repubblica Romana nel 1849, quando tentò di raggiungere Venezia con 4mila uomini, zigzagando tra eserciti ostili, francesi e austriaci, e attraversando Sabina, Umbria, Toscana, Marche e Romagna, fino a Cesenatico. Una camminata di 650 chilometri. Lui l'aveva fatto tra luglio e ago sto. Noi volevamo seguirlo anche in questo, solo che il caldo feroce ci terrorizzava. Bisognava prepararsi bene.

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Così, tra vari oggetti e indumenti altamente tecnici e soprattutto leggeri, ho acquistato, dopo molte ricerche, il mio primo paio di scarpe da trekking. Non nomino il marchio, anche se confesso che persino il nome, americano, a un certo punto ha cominciato a risuonarmi nella testa, a imporsi se vogliamo. Non mi piaceva il colore. Nero davanti, una fantasia rossa e bianca dietro. Che bisogno c'era di quei ghirigori? Ho 65 anni. Il peso, però, 250 grammi a scarpa, la metà di una scarpa normale, era straordinario. Non che io sapessi che pesavano tanto, questo l'ho controllato online, ma sentivo un'insolita leggerezza. L'oggetto, che è il mio corpo, veniva percepito diversamente, grazie a queste scarpe. E mi piaceva che la parte superiore fosse solo una rete. Se soffiava una brezza, la si sentiva sui piedi. Il battistrada sotto la suola era fatto di tanti trisceli, figura formata da tre gambe che partono da un centro comune, antico simbolo del sole o del moto. Mi sembrava di buon auspicio.

Iniziammo la camminata. Quattro di mattina, piazza San Giovanni in Laterano. Avevamo forti dubbi sulla fattibilità del progetto. Ma le scarpe calzavano perfettamente. Mi trasmettevano l'asfalto di Roma, i terrains vagues intorno al Grande Raccordo Anulare, i sanpietrini dei vicoli ripidi di Tivoli. E, soprattutto, i piedi non sudavano, neanche a 35 gradi. Il resto del corpo era grondante. Occorre soffermarsi sulla differenza tra un oggetto in rapporto agli occhi, alla pelle, alle orecchie, al naso, alla lingua. La moneta che vedi scintillare sul bancone del bar non è quella cosa liscia, dura, rotonda che le tue dita trovano in tasca. In rapporto al mondo di fuori, diverse parti del corpo fanno esistere cose ben diverse.

Alla vista, le mie scarpe non mi sono mai piaciute. Goffe, sgraziate. Anche se mi davano informazioni utili. Già dopo il terzo o quarto giorno, intorno a Poggio Mirteto diciamo, il consumo non uniforme dei trisceli indicava chiaramente che cammino male. All'udito, erano discrete, rassicuranti, tranne dopo un acquazzone – nel passo appenninico di Bocca Trabaria – quando hanno fatto ciac ciac ciac, per ore, cosa che mi irrita oltre ogni logica. All'olfatto, non erano malvagie da annusare, neanche dopo 30 chilometri e più di marcia. E perché le annusavi?, vi chiederete. Nella loro rete esterna raccoglievano tutto ciò che si appiccica di boschi e prati. Dovevo estirpare semi, sterpi, spighe, per evitare pruriti vari il giorno dopo. Poi svuotarle da sabbia e sassolini, conoscere un po' l'interno oscuro di quest'oggetto, mettere la mano ben dentro. Erano oggetti raccogli-oggetti. Odorose, oserei dire. Soprattutto, però, mi permettevano di conoscere il terreno, quel vasto insieme di oggetti che è l'Italia tra Roma e Cesenatico. Mediando tra piede e mondo, come gli occhiali da sole rendono possibile il mezzogiorno abbagliante. Ogni tanto era una conoscenza fin troppo intima.

Le suole erano troppo leggere per i sentieri scoscesi sopra Stroncone, il greto dei torrenti che Garibaldi amava seguire, la montagna tra Macerata Feltria e San Marino. Ho assaporato, sofferto, goduto ogni sasso e ogni radice. Soprattutto, mi sentivo vivo, tutt'uno con il mondo. Che è il più grande lusso che un oggetto possa concederti. Poi la camminata è finita e anche i trisceli del battistrada erano scomparsi. Ormai il mondo esterno rischiava di entrarmi nella pelle.

Ho tenuto le mie scarpe un po' per ricordo, quasi un feticcio, tanto era stata forte l'esperienza di quella marcia. Ma il nostro appartamento è piccolo e non volevo essere un tutt'uno con le scarpe, ma con il mondo che mi avevano permesso di attraversare. Così, alla fine, le ho fotografate da ogni parte per poi consegnarle all'immondizia e ne ho comprato un nuovo paio identico. Forse gli oggetti più amabili sono quelli che si fanno facilmente sostituire.

Tim Parks

(Tim Parks è nato a Manchester, è cresciuto a Londra, ha studiato a Cambridge e ad Harvard e dal 1981 vive in Italia. Ha scritto 14 romanzi tra i quali Lingue di fuoco, Europa (candidato al Booker Prize), Destino e Il silenzio di Cleaver. Ha tradotto vari autori italiani, tra cui Moravia, Tabucchi, Calvino, Calasso e Machiavelli ed è coordinatore della Laurea Magistrale in Traduzione specialistica presso l'Università IULM di Milano).

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