UN ANNO DOPO

Genova, il ponte di Renzo Piano abbraccia le due città

Il viadotto, ideato da Renzo Piano e realizzato da Salini Impregilo e Fincantieri Infrastructure, è lungo 1067 metri e scandito da 19 campate a 40 metri dal suolo. Sarà completato in 12 mesi

di Fulvio Irace

Come apparirà il nuovo ponte sul Polcevera a Genova, progettato da Renzo Piano e realizzato da Salini Impregilo e Fincantieri Infrastructure

5' di lettura

Alle 11,36 del 14 agosto dello scorso anno, le prime immagini del crollo del Ponte Morandi a Genova trasformarono le vacanze di milioni di italiani in un lutto ancor’oggi lento da elaborare. Alla tragedia umana si aggiungeva il trauma di un legame vitale, improvvisamente interrotto, tra due realtà sino ad allora solidali: la Genova di Levante e quella di Ponente, la città storica e il suo porto, la Superba abbarbicata al glorioso passato e la città-fabbrica, la città operaia,motore vigoroso dell’economia dell’intera regione.

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Al di là delle polemiche roventi, quello che rimane nella memoria è il bollettino di guerra trasmesso dai media: 43 morti, decine e decine di feriti, centinaia di sfollati che si aggiravano disperati attorno a quelle che erano state le loro case, dove erano custodite,insieme ai ricordi, le tante, indispensabili, umili cose d’esistanza quotidiana. E poi l’onta di una struttura straordinaria – il ponte disegnato dall’ingegner Riccardo Morandi negli anni euforici del boom italiano – che tutti pensavamo consegnata al paradiso dei classici dell’architettura moderna e che ora si rivelava un fragile gigante.

Il sindaco di Genova Marco Bucci e l'architetto Renzo Piano (S) nel corso di una conferenza stampa sulla presentazione del progetto del nuovo viadotto dopo il crollo del ponte Morandi. ANSA/LUCA ZENNARO

Nell’agosto di questo 2019, a due mesi dall’avvio della fase della ricostruzione, il cratere dov’è crollato il ponte si presenta ancora come un campo di battaglia nel quale un esercito pacifico di maestranze, tecnici e direttori dei lavori si è accampato per riuscire nell’impresa di costruire un altro ponte – quello disegnato da Renzo Piano – in dodici mesi «per far ripartire la città in tempi rapidi – dice Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo- e dare a tutto il Paese un segnale forte, perché la ripresa economica e l’occupazione possano ripartire dalle grandi opere».

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Come per una battaglia navale, il cantiere è diviso in una scacchiera dove ogni quadrato indica un fuoco di attività. «La precisione – ricorda Nicola Meistro, direttore generale COCIV Salini , che con Fincantieri Infrastructure ha costituito la società PerGenova per la realizzazione del nuovo viadotto a tempo di record – è essenziale in guerra come in pace, e per noi questa sfida è una chiamata alle armi, in una battaglia dove l’orgoglio e il know how dell’ingegneria e dell’imprenditoria italiana devono dimostrare che in questo nostro Paese siamo ancora capaci di fare le cose con rapidità, con precisione e in sicurezza. Salini e Fincantieri competono in tutto il mondo per le infrastrutture e le navi. È significativo dunque che qui, a Genova, si riuniscano due aziende leader della tecnica italiana per realizzare un’opera che, lungi dall’essere banale o di routine, vorrebbe riuscire esempio di estetica, di solidità , di avanguardia tecnologica e componentistica sia nella messa a punto delle singole parti che nella sofisticata operazione di montaggio».

Il ponte progettato da Morandi era ardito sin quasi al limite della sfrontatezza. Un grillo con antenne irsute che scavalcava il Polcevera e i binari della ferrovia, volando sopra le case in un equilibrio delicatissimo che incantava per l’audacia costruttiva. Il nuovo viadotto disegnato da Piano sfila a quaranta metri del suolo con la sinuosità un po’ ipnotica di un serpente: una biscia d’acqua che lentamente si snoda per 1067 metri con diciannove campate.Il suo è un moto lento, prudente: «un ponte parsimonioso come la natura di noi genovesi- ci racconta l’architetto appena di ritorno dall’ultima visita in cantiere ai primi d’agosto - . Prudente come una persona che cammina con passo cadenzato e regolare la metafora delle campate di 50 metri) e poi, avvicinandosi al fiume, istintivamente fa il passo più lungo per superare l’acqua (le tre campate sul Polvecera di 100 metri). Semplice, ma non banale. L’ho pensato di getto sin dai primi giorni del dramma come una nave ormeggiata nella valle; un ponte in acciaio chiaro e luminoso. Di giorno rifletterà la luce del sole ed assorbirà energia solare e di notte la restituirà».

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«Per questo - conferma Nicola Meistro - quando è venuto in cantiere pochi giorni fa, l’architetto ha voluto fare una prova immediata, facendo sollevare all’altezza del futuro ponte un pezzo di campata appena assemblata in modo da verificare innanzitutto l’impatto visivo e l’esattezza dell’esecuzione delle parti metalliche, e poi per studiare l’effetto della luce sulla superficie dello scafo». Sembra strano sentir parlare di scafo a proposito di un ponte, ma, come dice Piano, «chi, come i genovesi, sa costruire navi, sa costruire tutto».

Il ponte infatti è una struttura ibrida, che rivela sin dagli schizzi iniziali la sua doppia natura, che in poche parole ancora Piano sintetizza così: «il ponte cresce dal basso, la sede stradale cala dall’alto. Esistono due livelli: quello del cemento, di cui sono fatti i piloni, che segue la topografia del terreno, e quello dell’acciaio, con cui è realizzata la chiglia, che si cala dall’alto per appoggiarsi ai piloni.Insomma, il ponte cresce dal basso e la sede stradale cala dall’alto».

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Ma questo da solo non spiega la complessità dell’impresa: costruire in un anno quello che di solito ne richiede almeno tre, significa concepire il progetto come una pianificazione millimetrica assai simile alla tattica della strategia militare. Il cantiere della ricostruzione infatti è solo il teatro finale di una paziente messa in opera che parte da lontano, dal sud al nord del paese: da Castellammare di Stabia, da Sestri Ponente e da Valeggio sul Mincio dove è stato aperto uno stabilimento di Fincantieri per la produzione della componentistica in acciaio. Dal porto di Castellammare partono i pezzi più grandi, scheletri d’acciaio del carico di centinaia di tonnellate; da Valeggio quelli più minuti, compatibili con il trasporto su gomma. Il porto di Genova diventa il collettore di questo flusso ininterrotto di elementi metallici (per rendere l’idea si parla di 9mila tonnellate di acciaio per la struttura e di 15mila per la carpenteria metallica) che – una volta superati i test qualitativi e artistici – vengono caricati su chiatte da gru di grandi dimensioni disponibili nei cantieri navali e scaricati a Genova con speciali carrelli modulari semoventi radiocomandati. Poi, nell’apposita area allestita in cantiere gli elementi vengono assemblati per formare l’impalcato, cioè la chiglia da appoggiare sulle pile di calcestruzzo.

Operazioni complesse e delicate, essenziali per il raggiungimento dell’obiettivo perché , come tutti ripetono, fare rapidamente non significa fare in fretta. In un cantiere dove si muovono più di 200 persone, la precisione del piano è essenziale: tutto è programmato nei dettagli, dalla fase di produzione delle lamiere d’acciaio (che ha richiesto corsi di addestramento delle maestranze) al loro trasporto, fino alla verifica degli incastri e dei più minuti particolari. È la filosofia di Piano del “pezzo per pezzo”, ma qui trasportato dalla scala dell’oggetto o dell’edificio a quello di una struttura lunga più di un chilometro, capace di monitorare se stessa trasmettendo, giorno per giorno, tutti i dati del suo funzionamento e delle possibili anomalie. Una testimonianza del made in Italy ai suoi massimi livelli, perché, come si ostinano a ripetere tutti gli attori(quasi mille persone ai vari livelli di responsabilità), qui si gioca il riscatto dell’italian pride: l’onorabilità di quanti si ostinano a contrastare l’ideologia del declino giocando la nobile carta del “saper fare” di cui , nonostante tutto, l’Italia è ancora maestra.

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