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Home working, remote working e smart working definiscono un fenomeno sempre più dirompente: lo svolgimento di un'attività lavorativa in un luogo diverso da quello messo a
disposizione dal datore di lavoro. Tale luogo può essere nello stesso Stato di residenza del datore di lavoro ma anche in uno Stato diverso. Nella seconda eventualità emergono tutte le difficoltà che si riscontrano nella prassi attinenti ai profili contributivi, al luogo e alle modalità di tassazione del reddito di lavoro ma anche e soprattutto all'esistenza di una stabile organizzazione, materiale o personale, del datore di lavoro nello Stato in cui il lavoratore ha deciso di svolgere la propria attività.
Tale ultima questione è stata più volte esaminata dall'OCSE, sia nei paragrafi 18 e 19 del Commentario all'art. 5 del Modello di Convenzione sia nei documenti del 2020 che del 2021 relativi all'emergenza Covid.
In relazione alla stabile organizzazione materiale, l'OCSE dà rilievo ad alcuni elementi. In primis, se la scelta di operare in remote working è del lavoratore o del datore di lavoro. In
secondo luogo, se il datore di lavoro mette o meno a disposizione un ufficio al lavoratore.
In terzo luogo, suggerisce di valutare anche l'eventuale esistenza di un effettivo interesse o vantaggio del datore di lavoro a che il lavoratore svolga l'attività da casa o comunque in uno Stato diverso da quello di stabilimento del datore di lavoro (ad esempio, per una
maggiore vicinanza ai rivenditori locali).
Altre variabili posso assumere rilevanza, anche sulla base della prassi e della
giurisprudenza di altri Stati (tipologia di attività svolta dal personale, eventuale ruolo
apicale, etc.) ma è evidente che il fenomeno è in evoluzione e il Commentario OCSE, datato 2017, sembra ormai inadeguato. Ad esempio, l'OCSE afferma che “spesso” le persone che operano in remote working svolgono “attività meramente preparatoria e ausiliare”. O anche che dal momento che “la ampia maggioranza” dei dipendenti che operano in remote working risiede nello Stato di stabilimento del datore di lavoro la questione “raramente” rappresenta un vero tema. Ma è ancora così? Nell'esperienza pratica la realtà sembra tutt'affatto diversa, così come è sempre più frequente che la medesima persona operi da diverse abitazioni, ad esempio una a Milano, una in Costa Azzurra e una nelle montagne svizzere senza alcun controllo o presidio da parte del datore di lavoro. L'incertezza regna sovrana e spesso le imprese sono impotenti poiché la concessione del remote working è un'arma eccezionale da usare nella “war for talents”.Cosa può fare l'Italia? L'Italia ha una grande chance di accogliere talenti considerando anche il regime dei neo-residenti e quello degli impatriati ma deve al contempo dare certezza agli operatori. In tale contesto, si potrebbe considerare una norma di “safe harbour” alla stregua di quella di recente introduzione avente ad oggetto la Investment Management Exemption.
Stabilire paletti chiari aiuterebbe gli operatori ad accettare che i propri manager possano lavorare dall'Italia senza creare rischi fiscali per il datore di lavoro e al contempo, metterebbe l'Italia in pole position nella corsa all'attrazione dei migliori talenti.
Paolo Ludovici, Equity Partner, Gatti Pavesi Bianchi Ludovici
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