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Un uso distorto del business plan frena le start up

Solo in superficie le provocazioni possono sembrare fini a sé stesse, magari prodotte da un disturbo narcisistico della personalità. Alcune, invece, svolgono un ruolo fondamentale

di Michele Costabile

(sommart - stock.adobe.com)

3' di lettura

Solo in superficie le provocazioni possono sembrare fini a sé stesse, magari prodotte da un disturbo narcisistico della personalità. Alcune, invece, svolgono un ruolo fondamentale. Come i tagli di Fontana, squarciano la tela delle convenzioni e se filtrate da un adeguato (i.e. educato) spirito critico attivano processi di falsificazione dal cui successo, anche solo parziale, nascono le innovazioni. In questa prospettiva ha senso leggere il volume di Carl Schramm, oggi componente della faculty della School of Information Studies alla Syracuse University ma per un decennio Ceo della Ewing Marion Kauffman Foundation, riferimento mondiale per le iniziative sull’entrepreneurship. Di provocatorio nel volume c’è anzitutto il titolo – Brucia il business plan. Il vero mestiere dell’innovatore (Luiss University Press , pagg. 248, € 17) – cui seguono anche molti contenuti che stimolano dubbi sull’efficacia di alcune convenzioni, come per esempio la «compilazione» di business plan quali formulari da dare in pasto alla burocrazia dello start-up ecosystem oppure l’applicazione di modelli tipo Canvass, le cui sezioni sono grani di un rosario laico recitato da professionisti bigotti. Certo Schramm indulge nell’autobiografia, con poche evidenze empiriche rigorose e molta aneddotica, a volte viziata da bias.

L’autore propone una serie di spunti imperdibili per chi vuole capire le dinamiche dell’entrepreneurship. E sul tema “cuore” del volume espone alcuni temi fondamentali. Per esempio, quello sulla natura intrinsecamente dinamica dei business plan, che andrebbe immesso in processi circolari e rapidi di revisione. Parafrasando Von Moltke nessun piano sopravvive al contatto con il mercato (il «nemico»), e di conseguenza bisognerebbe bruciare di continuo i business plan ma, di continuo, svilupparne di nuovi. Ecco che la provocazione del titolo non scredita lo strumento ma l’uso distorto da errori di «dosaggio» (profondità delle sezioni) e «posologia» (frequenza di sviluppo e revisione). Ancora, l’autore chiarisce il perché sia insensato identificare tempi e modalità di exit quando ancora non è stato neppure validato il business model ovvero investire nel financial planning di dettaglio prima ancora di aver verificato con il «nemico» (mercato) gli assunti su prezzi e quantità - non «le assunzioni» che auspicabilmente saranno numerose se la start-up avrà successo. I business plan delle start-up sono «materia viva», da riplasmare in ragione della velocità di apprendimento che modifica la comprensione del business. Velocità che in una start-up è quella di un infante, che cresce a vista d’occhio.

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Schramm dedica, infine, un capitolo a «pianificare il successo» e un paragrafo addirittura a pianificazione e fortuna. Ed è qui che il volume esprime tutta la sua utilità al lettore, in linea con la missione della collana editoriale che lo ospita, suggerendo nuovi atteggiamenti progettuali e quindi schemi emergenti, e in parte inediti, sui quali con urgenza costruire il nuovo.

Il business plan per una start-up è una piattaforma di sperimentazione, con ingredienti ben definiti – identità , competenze e relazioni come suggerisce l’effectuation theory – guidati da una visione (del mondo e del mercato) e da una «finalizzazione» (mission e purpose) che catalizzi conoscenze e competenze da convertire in capacità d’azione. Chè parafrasando il mantra del signor Kauffman, da cui il nome della fondazione, il miglior modo per imparare a fare l’imprenditore è fare un’impresa. Ed è norma per chi innova «rompere» i piani d’impresa, a cominciare dal proprio. Insomma, piano scaccia piano e «bruciare» andrebbe inteso come la forma più alta (e meno inquinante) di rigenerazione delle competenze e di purificazione dai difetti delle capacità imprenditoriali. E forse, soprattutto per una start-up, potrebbero cambiare oltre ai contenuti anche le forme linguistiche, sostituendo a «pianificazione» e «piani» i termini «progettazione» e «progetti», semanticamente meno rigidi e più evolutivi.

L’essenza del volume richiama alcuni potenti aforismi, quelli che per dirla con Karl Kraus esprimono una verità e mezza. Il primo è di Dwight Eisenhower secondo cui «i piani non hanno valore, la pianificazione è tutto«; il secondo è di Arthur Bloch che in una delle sue esilaranti leggi di Murphy chiarisce come l’accurata pianificazione non sostituisca la buona sorte. Insomma, prima di bruciare un business plan vale la pena leggere questo volume, assorbirne gli utili suggerimenti e riformulare o meglio termovalorizzare il proprio business plan. Con una ginnastica motivazionale da ripetere tante volte quante ne servono per imparare a progettare anche la buona sorte.

Professore ordinario di marketing e direttore di Luiss-Xite, Università Luiss

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