Un viaggio nella trasparenza: perché i diamanti devono essere tracciabili dall'estrazione fino al gioiello finito
Vent'anni di investimenti tecnologici e sociali per dare alla più preziosa delle pietre un passaporto di responsabilità.
di Alexis Paparo
5' di lettura
Nel 2017, lo scrittore, giornalista e antropologo indiano Amitav Ghosh pubblica La grande cecità: il cambiamento climatico e l'impensabile, in cui riflette sull'incapacità della narrativa non di genere di occuparsi di crisi climatica, definendola “una crisi della cultura, e pertanto dell'immaginazione”. La cultura induce desideri - continua Ghosh - che sono i principali motori della nostra economia, ed ecco individuato il principio d'inerzia da interrompere: rendere la sostenibilità anche molto desiderabile. È una delle sfide del nostro tempo e dà le vertigini, come lo è sempre ribaltare lo status quo, ma è anche elettrizzante, perché mai come in questo momento siamo in possesso della tecnologia e della conoscenza che ci consente di decidere di ideare, produrre, scegliere in modo sostenibile per il pianeta, l'economia e le persone.
Ecco perché, dal 2018, How to Spend it si è impegnato a raccontare storie in cui il rispetto ambientale e sociale è sostanza costitutiva di oggetti e progetti. Uno spazio che è via via cresciuto e, a partire da settembre, ha assunto una doppia forma. Un'attenzione diffusa e trasversale a ogni pagina e un appuntamento fisso che mette sotto la lente d'ingrandimento momenti significativi del percorso verso la sostenibilità di design, moda, food, architettura, motori, hôtellerie e travel. Queste storie saranno subito traducibili in scelte informate e azioni concrete per ridurre il proprio impatto senza rinunciare al bello, all'eccellenza, anzi innescando un meccanismo a cascata che diffonda le tecnologie, espanda i saperi, permei di cambiamento tutti i settori.
«E cambiamenti di questo tipo non avvengono nel giro di una notte», esordisce Victoria Reynolds, vicepresidente global merchandising e chief gemmologist di Tiffany & Co. Laureata alla Rhode Island School of Design, gemmologa dal 1991 e con 33 anni di carriera nell'azienda, ha visto nascere il percorso verso la tracciabilità del brand e, anche in videocall da New York, riesce a trasferire tutto il suo entusiasmo. Da ottobre, l'azienda rende noto l'intero percorso di lavorazione dei propri diamanti approvvigionati di recente registrati singolarmente (a partire da 0,18 carati), dall'acquisizione delle pietre grezze fino al loro arrivo nelle blue box.
Questo primato del settore passa anche dai cinque laboratori che possiede e gestisce. «Sono serviti vent'anni per costruire le infrastrutture e la rete di relazioni che ci ha portato qui, ma oggi ogni diamante ha un passaporto (consegnato insieme al gioiello, ndr) che ne ricostruisce il viaggio, dalle profondità della terra fino al dito di chi lo indossa». Il percorso inizia in uno dei sei Paesi presso cui Tiffany & Co. acquista le pietre: Botswana, Canada, Australia, Namibia, Russia e Sudafrica. «Attraverso pratiche di approvvigionamento responsabile, lavoriamo per promuovere la protezione dei diritti umani e dell'ambiente, creando opportunità economiche per chi vive in quelle aree», continua Reynolds. «Per esempio, dal 2019, abbiamo assunto il 99 per cento della nostra forza lavoro internazionale, composta da circa 4mila dipendenti, dalle comunità che vivono attorno ai nostri laboratori».
I diamanti proseguono il loro percorso fino ad Anversa, dove ne viene registrata l'origine, prima di progettarne il disegno. Taglio e lucidatura avvengono nei laboratori di Mauritius, in Botswana, in Vietnam, in Cambogia e Belgio e da qui si procede verso la classificazione e il controllo qualità nei laboratori gemmologici in Cambogia, Vietnam e Stati Uniti. Negli Usa si realizza la maggior parte delle incassature. «Questo lavoro mi permette di chiudere il cerchio: il mio team collabora con il dipartimento artistico e con i designer, ma viaggiamo anche in tutto il mondo per l'approvvigionamento delle pietre, visitiamo i laboratori, dialoghiamo con le comunità locali. Non vedo l'ora di tornare a farlo, appena il momento lo consentirà. La trasformazione di una pietra in gioiello è affascinante: possono passare anche due anni e mezzo prima di presentare il pezzo finito».
Reynolds, che è entrata in azienda con uno stage estivo, cita Peretti e Schlumberger fra i suoi designer preferiti, ma la cosa più importante «è come un gioiello può farti sentire. Da bambina, vedevo mio padre regalare a mia mamma pezzi Tiffany e una volta cresciuta, non c'è stato un altro brand per il quale avrei voluto lavorare». Adesso, «il prossimo grande passo per l'intero settore e per i nostri competitor deve essere investire nelle infrastrutture necessarie per far sì che ogni diamante sia estratto responsabilmente».
Se è da tempo che l'alta gioielleria lavora per sollevare il velo dal mercato dei diamanti, arrivando a iniziative internazionali condivise come il Kimberley Process e RJC, c'è ancora da lavorare su un protocollo specifico per le pietre di colore, perché, «l'80 per cento delle gemme colorate, centinaia di tipi diversi, viene da miniere artigianali ed è difficilissimo ricostruire la filiera. Ci affidiamo ai rigidi standard interni di approvvigionamento e di selezione dei fornitori». Sicuramente qualcosa con cui il settore dovrà fare fronte comune.
Se c'è una cosa su cui Reynolds è categorica, sono i diamanti artificiali. «Credo che nel mondo ci sia il posto giusto per ogni cosa, ma queste pietre sono un miracolo della natura che si forma in miliardi di anni, e sono le uniche che Tiffany & Co. vuole vendere. In più, sono una risorsa naturale che supporta l'economia delle comunità locali, quando si Seba opera responsabilmente. Per esempio, nel 2019, l'azienda ha contribuito per oltre 59 milioni di dollari all'economia del Botswana». Chiederle quale diamante ama di più è come domandarle «di scegliere qual è il mio figlio preferito». In 33 anni, le sono passate sotto gli occhi e fra le dita migliaia di pietre, ognuna con il suo irripetibile bagliore, la sua storia, il futuro da immaginare, e tagliare. «Li amo tutti perché sono il segno tangibile di un momento di felicità», spiega Reynolds.
Poi, un nome pian piano emerge. È il Tiffany Diamond, 128,54 carati di riflessi dorati, taglio cuscino - «anche se il mio preferito è l'emerald cut» - e ha una storia straordinaria. Acquistato grezzo nel 1878 da Charles Tiffany, è stato indossato soltanto tre volte, l'ultima da Lady Gaga alla cerimonia per la consegna degli Oscar, e prima di lei da Audrey Hepburn. «Questa pietra continua a catturare l'immaginario delle persone da 133 anni (è esposto nel flagship store sulla Fifth Avenue, ndr). Ed ecco cosa ha di magico la gioielleria. Che si tratti del Tiffany Diamond o di un anello di fidanzamento, ciò che amo di più del mio lavoro è vivere a contatto con oggetti che suscitano e simboleggiano emozioni». E, da questo mese, anche una nuova trasparenza.
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