Una collezione di pietre preziose che racconta viaggi senza fine
Piccoli minerali, statuette egizie, album di fotografie, tessuti e i diari scritti dall'età di otto anni: la trama della memoria non si fa solo a parole.
di Madeline Miller
4' di lettura
Mi diverte avere piccoli oggetti da portarmi sempre dietro, come se fossero amuleti. Da bambina, tenevo spesso in tasca una tartaruga di metallo: mi piaceva tirarla fuori di tanto in tanto, giocherellarci o anche solo guardarla. Ancora oggi mi ritrovo a nascondere negli abiti che indosso più spesso piccole pietre levigate: sfiorarle mi restituisce un'immediata sensazione di benessere. Detto questo, cerco di mantenere un mio personalissimo equilibrio fra il piacere di possedere e il rischio dell'accumulo eccessivo che sfocia sempre nel disordine.
C'è qualcosa, però, che non rientra in questo meccanismo di autolimitazione e sono le fotografie, a cui non rinuncerò mai, perché sanno quali corde del mio cuore toccare. Per me sono preziosissime, forse gli oggetti più importanti in assoluto per la loro capacità di racchiudere e custodire storie, soprattutto se ritraggono amici e familiari in momenti significativi. Raccolte in album, diventano una sorta di macchina del tempo che mi fa tornare indietro alla persona che ero quando le ho riunite, ma anche ai ricordi che hanno immortalato. Accanto alle fotografie collocherei i miei diari, che scrivo ininterrottamente da quando ho otto anni, un'abitudine a cui non saprei e non vorrei rinunciare. Ormai iniziano a diventare tanti e stanno pian piano andando a costruire un piccolo grande tesoro di memorie da cui mi è impossibile separarmi, esattamente come accade con gli album fotografici, perché sono testimoni di impressioni, stati d'animo, eventi che si sono succeduti e contengono ricordi non solo miei, ma anche dei miei figli.
Non mi considero una collezionista, però sicuramente ho sviluppato una passione per le pietre. Ne ho tante, mediamente preziose, e mi piace anche regalarle alle persone care, come il cuore di diaspro rosso che ho scelto per mio marito e che lui porta sempre con sé. Sono affezionata a una rodocrosite, un minerale di carbonato di manganese molto raro a forma di un cuneo: la tengo proprio vicina al letto e anche solo osservarla mi rende felice. Le pietre, oltre a ricordarmi il momento in cui sono diventate mie, mi trasmettono una sensazione di permanenza e di umiltà, perché erano qui molto prima di noi ed esisteranno anche dopo: io rappresento solo una tappa del loro infinito viaggio.
Credo sia ormai evidente che scelgo gli oggetti in base alla loro capacità di trasmettermi emozioni. Uno di questi è il nostro tavolo della cucina, formato dall'ex porta di una stalla in pino bianco che abbiamo salvato e riutilizzato. Si tratta di un mobile solido, con la grana e le venature del legno in evidenza, belle da vedere e toccare. Farei invece a meno del cellulare – anche se ormai è indispensabile per districarsi nella quotidianità –, cederei volentieri il suo posto ai libri, il mio passe-partout per scivolare in un istante dentro un altro mondo. Ho sempre con me qualcosa da leggere e penso che la letteratura sia un grande dono dell'umanità all'umanità, un vero privilegio.
A volte è eccessivo, quasi maniacale, il valore affettivo che riversiamo negli oggetti. Avendo una predisposizione innata a mettere in ordine, archivio le cose in eccesso in scatole di cartone, alcune delle quali sono ormai colme. Le vorrei regalare, ma poi nel momento decisivo mi tiro indietro. Che sfida decidersi ad abbandonare quello che è stato nostro! Un oggetto da cui non sono mai riuscita a separarmi è la riproduzione di una statua del dio Horus che mia madre mi ha regalato per il mio sedicesimo compleanno. È molto pesante, ma la porto con me in ogni nuova casa perché me la ricorda e dimostra che, già allora, andavo pazza per il mondo antico.
Tra le cose di famiglia che continuiamo a tramandare c'è una vecchia culla: ci hanno dormito già cinque generazioni di neonati e mi sembra una bella forma di connessione con il passato e con i nostri antenati. Non farei mai una pazzia per acquistare qualcosa di eccessivamente lussuoso. I soldi, secondo me, vanno spesi per andare a teatro, per fruire di un'esperienza agli antipodi del possesso, evanescente, che vivrà solo nella nostra memoria, ma che ha un potere narrativo che trascende la materia.
Non che gli oggetti siano privi di valore evocativo, anzi. Se potessi attingere al mondo antico, ci sono tante cose che sarebbe meraviglioso possedere, in particolare i manufatti tessili. Gli arazzi svolgono un ruolo centrale in tanti miti, ma ne sono sopravvissuti pochissimi esemplari. Vorrei poter passare in rassegna colori, trame, scene per capire cosa avessero in mente gli autori antichi quando descrivevano l'abilità di tessitrici mitologiche come Circe e Penelope; poter toccare con mano l'arazzo con cui, si dice, Aracne abbia eguagliato per bravura la dea Atena. Poi mi piacerebbe vedere le statue nei loro vivaci colori originari e gli strumenti musicali dell'Antica Grecia, in particolare lire, flauti e percussioni.
Mi emozionano i ritrovamenti dei giocattoli e di tutti gli oggetti di uso quotidiano, persino le calze. Altre volte, invece, mi chiedo di che cosa si potrebbe circondare Achille se vivesse nel ventunesimo secolo. E mi rispondo che vorrebbe tanti strumenti musicali, perché nell'Iliade è descritto come un bellissimo cantante e musicista, e forse anche attrezzi sportivi, anche se non sono sicura che ne avrebbe bisogno. Piuttosto, apprezzerebbe i biglietti per andare a teatro, per assistere a un balletto o alle Olimpiadi. E sono sicura che sarebbe attratto dal multitasking, dalla possibilità di svolgere contemporaneamente tante attività diverse, come facciamo noi ogni giorno.
Madeline Miller è nata a Boston nel 1978. Laureata in lettere classiche alla Brown University, si è specializzata alla Yale School of Drama nell'adattamento dei classici a un pubblico contemporaneo. Per anni ha insegnato greco e latino nei licei americani. Il suo romanzo d'esordio, La canzone di Achille (Marsilio, 2019), le ha fatto vincere l'Orange Prize for Fiction 2012, riconoscimento assegnato ogni anno alla migliore opera di fiction di autrice femminile pubblicata nel Regno Unito. Ha poi scritto Circe (Marsilio, 2021) e Galatea (Sonzogno, 2021).
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