Una community di donne e idee: fare rete è il segreto dell'innovazione
Natacha Ramsay-Levi, direttrice creativa di Chloé, traccia il percorso di una nuova femminilità grazie al dialogo con l'artista Rita Ackermann
di Jessica Beresford
7' di lettura
Nella sua raccolta di saggi Questa strana e incontenibile stagione (pubblicata nel 2020, in Italia da Edizioni Sur, ndr), Zadie Smith riflette su come le videoconferenze abbiano inventato un'estetica delle nostre conversazioni, portandoci ad adattare consapevolmente noi stessi e l'ambiente che ci circonda ad uso trasmissione e connessione. Nessun esempio lo dimostra meglio della mia videochiamata con l'artista Rita Ackermann e con la direttrice creativa di Chloé , Natacha Ramsay-Levi. Collegata dal suo studio di New York, la prima si mostra in tutto e per tutto come un'artista all'opera: indossa una comoda maglia nera, porta i capelli raccolti in uno chignon e le sue creazioni complesse, caotiche, dalle tinte vivaci spuntano dietro di lei su pareti di truciolato grezzo. Natacha Ramsay-Levi, in collegamento dalla sede di Parigi, indossa una giacca kaki fantasia con le maniche tirate su al gomito e un unico lungo orecchino. È seduta in un ufficio stracolmo di libri e di pile di carta bianca, a un certo punto apre appena la finestra e la stanza si illumina.
L'artista e la fashion designer: sarà una conversazione dall'estetica precisa. Le due creative chiacchierano come vecchie amiche – e in effetti lo sono. «Ci siamo conosciute tramite Olivier [Zahm], circa dieci, forse quindici anni fa», ricorda Natacha Ramsay-Levi, riferendosi al suo ex compagno, il direttore artistico e caporedattore di Purple, con cui ha un figlio di sette anni. «Ma siamo anche connesse grazie ad amici comuni, alle idee e alla passione per l'arte che condividiamo». Perciò si sono ritrovate a collaborare alla collezione a/i 2020 di Chloé, che a febbraio ha sfilato a Parigi ed è arrivata a settembre nei negozi. Intitolata come una delle opere di Rita Ackermann, If You Listen Carefully…I'll Show You How To Dance (1995), la presentazione si è tenuta in uno spazio costellato da colonne dorate, decorate della scultrice Marion Verboom, inondato da un sottofondo musicale inframezzato a un parlato con la voce di Marianne Faithfull. Gli abiti, caratterizzati dalla femminilità anni Settanta tipica della maison, erano animati dalle immagini di figure femminili astratte e flessuose che ricorrono nelle opere di Rita Ackermann. L'idea di questa collaborazione è venuta a Natacha Ramsay-Levi dopo aver visto la figlia di Olivier con una shopping bag decorata dai motivi di Ackermann. «È stato quasi una magia perché io conosco bene le sue opere e so che cosa vuole comunicare. E così ho contattato Rita», racconta.
L'artista non è abituata a dire di sì a questo genere di proposte. «In effetti, sono spesso portata a rispondere di no», conferma. «Ma seguivo il percorso di Natacha da quando lavorava già per altre maison di moda e ho sempre avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente femminile e potente nei suoi abiti». D'altronde Rita Ackermann è molto legata al mondo del fashion. Nata a Budapest, è arrivata a New York all'inizio degli anni Novanta, nel periodo in cui la scena artistica che aveva dominato il decennio precedente aveva esaurito la sua spinta. C'era spazio per nuove sperimentazioni. «Le persone della mia età che terminavano gli studi artistici erano più interessate alla moda che al mondo dell'arte», ricorda Ackermann. «Se ci pensate, all'inizio degli anni Novanta, gli stylist non esistevano ancora. Così (io e i miei amici, ndr) abbiamo creato una fusione di moda e stile». Del club facevano Bernadette Van-Huy (del collettivo di guerrilla art Bernadette Corporation), il regista e artista Harmony Korine e la modella e attrice Chloë Sevigny (che quest'anno ha partecipato all'inaugurazione della mostra newyorkese di Rita Ackermann presso Hauser & Wirth ). «È stato un periodo davvero entusiasmante», dice riferendosi all'energia del gruppo, «un momento di collaborazione tra arte e moda davvero straordinario».
Le opere che Natacha Ramsay-Levi ha scelto per Chloé provengono dai primi lavori di Rita Ackermann, nel periodo che va dal 1994 al 2001. «Osservandole, sento che fragilità e forza sono separate da una linea molto sottile», spiega. «Ed è questo che mi ha convinto a sceglierle per la collezione: volevamo mostrare quel confine tra vulnerabilità e autoaffermazione, che i disegni di Rita esprimono e anche per rendere omaggio alla sua opera». In un 'opera in particolare, Somehow New (2001), tratta dalla serie The Levitation of the Strong American Women, Ackermann rappresenta le differenze di dress code tra gli Stati Uniti e l'Europa. «Ho vissuto in Texas per un breve periodo e ho notato subito che le donne americane comunicano molto attraverso l'abbigliamento e lo stile di vita, e fanno shopping ispirandosi ai magazine, sfogliando i look book di moda», racconta Rita Ackermann. «È stato strano per me osservarle perché in Europa – in particolare nei Paesi dell'Est – l'espressione di sé obbedisce a codici diversi». Queste due idee agli antipodi di femminilità – la donna da catalogo e la donna militante, estremista – si sono scontrate sulla tela prendendo la forma di due figure contrapposte, con targhette numerate appese al collo. E adesso, grazie a Natacha Ramsay-Levi, hanno trovato una nuova forma d'espressione perché sono state riportate su una T-shirt sportiva in jersey e una gonna a portafoglio in crêpe.
Altre opere sono raffigurate su lunghi abiti o sulla collezione di borse Daria della maison. «Quando ho proposto questa collaborazione a Rita sapevo già come mi sarebbe piaciuto utilizzare i suoi lavori», racconta Ramsay-Levi. «Avevo in mente questo vestito vintage con sopra una bandiera – penso fosse dei Led Zeppelin – che era stato realizzato da uno dei suoi fan». Ispirandosi a questo pezzo, ha creato un abito lungo con bottoncini e colletto ricamato e ha fatto stampare l'opera d'arte sulla parte frontale. Avrete sentito parlare di fan art o fan fiction, ecco, questa è fan fashion, se vogliamo. «Il gesto è stato quello di creare un abito ideale per i fan, un messaggio che si vuole indossare per sentirsi parte della stessa comunità».
Alla base del lavoro di Natacha Ramsay-Levi c'è proprio questo: la volontà di creare una comunità. Cioè fare rete. Da quando è passata da Balenciaga a Chloé, nel 2017, ha radunato una schiera di creative intorno a sé. Per la collezione a/i 2020 ha portato in passerella diverse amiche, tra cui la regista Deniz Gamze Ergüven, la giornalista Hailey Benton Gates e la consulente di moda Shala Monroque. Collabora regolarmente con l'attrice Sigrid Bouaziz e la stilista Camille Bidault-Waddington (con cui è stata presidente della giuria moda al Festival di Hyères nel 2019) ed è amica di vecchia data della scrittrice Pauline Klein. Anche la dj, artista e modella Phoebe Collings-James è tra le amiche del brand. «Penso che il concetto di dar vita a una comunità creativa sia molto femminile», afferma Natacha Ramsay-Levi. «C'è qualcosa di speciale nell'essere donna e nel modo in cui lo si può condividere. Ho molti amici di cui ho bisogno e anche nel mio lavoro desidero mostrare questa rete di affetti, connessione e collaborazione. Credo che mi renda migliore e più interessante».
Se lo stile di Rita Ackermann ha vagato per qualche tempo tra il figurativo e l'astratto, le sue ninfe femminili sono un motivo ricorrente nella sua carriera, che spesso è stato frainteso. «Ai tempi (negli anni Novanta, ndr) la gente mi vedeva o come un nuovo genere di femminista o come un'antifemminista. Non era chiaro se quello che stavo facendo – cioè raffigurare ragazze flessuose, che si esprimevano liberamente – avesse lo scopo di rinsaldare oppure di distruggere l'immagine della donna forte, sicura ed emancipata. Ma quello che mi piace sempre sottolineare del mio lavoro è che non riesco a farlo rientrare in una categoria». Natacha è perfettamente d'accordo con lei: «Penso sia proprio questo il punto. Non si tratta di essere femministe o meno, ma di rappresentare l'essere femminile con tutte le possibilità che racchiude. Questo è stato lo scopo anche della sfilata: trasmettere il senso di quanto l'esperienza di essere donna sia straordinaria e non possa essere incasellata. Credo, anzi, che quando si comincia a classificare, a inserire in uno schema, si limiti la libertà di espressione. Conta invece l'indefinito, la sua potenzialità aperta e penso che quelle prime opere di Rita lascino alle persone lo spazio per immaginare ciò che desiderano».
Eppure, anche senza volerlo circoscrivere o definire, c'è qualcosa di marcatamente femminista nel lavoro di Natacha Ramsay-Levi da Chloé – sia nella comunità di voci femminili da lei collegate, sia negli abiti creati, che hanno un piglio insieme delicato e deciso. In quest'ultima collezione, per esempio, ha applicato sui risvolti delle giacche e sui maglioni delle spille con gli elementi tipici della protesta femminista. Alcune erano mini rappresentazioni delle opere di Ackermann, altre contenevano un messaggio, come “Girls Forward”, il titolo della campagna di raccolta fondi di Chloé per Unicef. «Si tratta di saper parlare di sé», spiega ancora Ramsay-Levi. «Quando ci si veste in un certo modo si vuole comunicare qualcosa, ma si può farlo in maniera sottile, con parole belle e leggere anche se hanno un contenuto di protesta».
Nel 2012 Rita Ackermann dichiarò al The New York Times di aver concluso il suo percorso all'interno dell'industria della moda e di volersene allontanare. «Negli anni Novanta lavoravo a stretto contatto con giovani stilisti e fashion designer che avevano una voce forte, erano anni in cui ci si poteva esprimere», ricorda. «Poi questo è andato scemando. Tutto ha iniziato a girare intorno a brand, etichette, loghi, e quel mondo non faceva proprio per me. Non lo trovavo più né interessante né stimolante, forse proprio perché sono convinta che la moda debba essere un modo per esprimere se stessi al di là delle parole». Questa collaborazione è un nuovo inizio.
«Quando ho accettato di lavorare con Natacha non mi è passato per la mente neanche per un secondo che mi stavo riavvicinando al settore moda, sapevo solo che sarebbe stato importante. E penso che qualcosa dello spirito del passato stia ritornando. Le persone hanno di nuovo voglia di esprimersi». Natacha Ramsay-Levi conferma: «C'è stato un momento in cui la creatività era più monocorde, forse un po' appiattita e conformista, ma ora, guardando all'industria della moda, ci sono voci forti e brand ben caratterizzati. Acquistare un abito o una borsa vuol dire entrare a fare parte di una comunità, e non è qualcosa che riguarda solo il logo. È come quando compri una T-shirt con un'immagine stampata o con una scritta perché ti piace, ti riconosci in quel messaggio e ha un significato per te. In questo senso, oggi servono talenti con un timbro espressivo preciso e forte, perché i brand hanno bisogno di questo».
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