Il futuro delle metropoli

Una cultura urbana diffusa per dare senso alle città di domani

di Paolo Verri

(R.M. Nunes - stock.adobe.com)

4' di lettura

Fino all’inizio del Duemila, la maggioranza della popolazione del Pianeta viveva in aree rurali; solo il nostro XXI secolo è quindi davvero un «secolo urbano». La crescita delle città sarà incredibile nei prossimi dieci anni. Nel 2030 il 9% della popolazione mondiale abiterà nelle 33 città più grandi al mondo e il 15% del Pil mondiale sarà prodotto nelle medesime. La capitale della città, la supermegacittà, non sarà né New York né Mosca, non sarà né in Europa né in America, bensì in Asia. E non sarà nemmeno una città cinese, come molti potrebbero pensare. La città più popolosa al mondo sarà Jakarta, capitale dell’Indonesia, che nel 2030 avrà ben 35 milioni di abitanti, superando Tokyo, che nel prossimo decennio ne perderà ben due.

Ventisei delle 33 città più grandi al mondo saranno ubicate in Paesi in via di sviluppo; in Asia ce ne saranno ben 19, di cui sei in Cina e quattro in India. Alcune città eterne continueranno a dominare la scena mondiale: Il Cairo avrà 30 milioni di abitanti, e con Lagos rappresenterà l’ascesa dell’Africa nella prima metà del secolo. Anche perché quelle africane saranno le città più giovani e dinamiche, con la maggior crescita economica percentuale. Mentre Osaka sarà la più grande città di anziani al mondo: ben il 31% della sua popolazione avrà più di 65 anni.

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Chi lavora nella città non ha tempo di teorizzare; è ossessionato dall’incedere inarrestabile delle lancette. Eppure lo sa che la fretta è cattiva consigliera, che molte scelte che si fanno, molti lavori – una volta realizzati – durano secoli, e che gli errori sono quindi più gravi. Eppure prende una frenesia, a chi lavora in città, quasi incomprensibile, come se si dovesse sempre recuperare un tempo perduto.

In Europa, negli ultimi trent’anni, questo stimolo quasi fisico a rimettere a posto le cose ha permeato nazioni su nazioni, Gran Bretagna e Spagna, ma anche l’Est Europa, parte della Germania e dell’Italia sono state travolte dal desiderio di trasformare. Si è trattato più che altro di azioni di ripristino, il più delle volte comandate dall’alto, ma molto spesso realizzate anche attraverso discussioni preventive e parallele al lavoro delle maestranze competenti. Azioni che hanno riconsegnato alla civiltà decine e decine di spazi urbani, di aree, di distretti, anche semplicemente di prati e di fiumi, che la civiltà industriale aveva quasi completamente travolto.

Un giorno, entrando per la prima volta nel cuore dell’antico distretto della produzione militare tardo ottocentesca di Torino, tra il mercato all’aperto più grande d’Europa, Porta Palazzo, e il mercato delle pulci che si tiene sotto i balconi del Cottolengo, lì a poche centinaia di metri da Palazzo Civico dove un sindaco deve reggere le sorti di una comunità di un milione di persone che dialoga almeno ogni giorno con altrettanti interlocutori, lì mi sono trovato nel mezzo di una selva verde che aveva ridotto in scherzo il maglio che produceva le armi. Mi vennero in mente le parole dell’archeologo C.W. Ceram: «Il rinvenimento in un bosco sconosciuto di un pezzo di antica muraglia che testimonia di una vita da tempo scomparsa, è un fatto interessante e che induce a molteplici considerazioni; ma nessuno vorrà chiamarlo un miracolo» (Civiltà sepolte. Il romanzo dell'archeologia [1975], Torino, Einaudi, 2015). Eppure per noi torinesi, allora poco più che trentenni, quell’oggetto, e la possibilità di riportarlo in vita, di trasformarlo da motore di guerra a emblema di pace e sviluppo, è stato uno dei tanti luoghi e momenti di una storia fortunata che ha avuto il compito di riportare in vita una città narcotizzata da quarant’anni di fabbrica. Ai primi di novembre del 2019 quel luogo era vissuto da migliaia di giovani come stage urbano di uno dei più importanti festival d’Europa, il Club To Club. Spazio musicale, ma non solo: di incontro, di commercio, di contatto anche fisico, generatore di passioni e di emozioni.

Un sindaco oggi sa che il dialogo con i cittadini dev’essere serio e reciproco. Bisogna essere autorevoli sia nel dare sia nel chiedere; sia con i residenti sia con i cittadini temporanei (endiadi che sostituisce necessariamente il vocabolo «turista» ai tempi di Airbnb) bisogna essere straordinariamente accoglienti, ma anche delicatamente esigenti.

Queste non sono sfide da poco e toccano concretamente il tema del paesaggio culturale, dei percorsi di visita, di quella che potremmo cautamente definire «manutenzione della bellezza». Come ci si innamora di una donna non per le sue forme esibite o ricostruite, ma per la capacità che mostra di essere «intatta», non nascosta dal belletto, ma resa naturale nel suo portamento da un semplice paio di orecchini, così si ama d’istinto una città che sappia nel contempo far apprezzare la cura del verde, delle strade, dei palazzi e tuttavia non sia una copia malsana di un parco a tema, trasformando malamente il suo contesto urbano in un «prodotto».

Nei prossimi anni, quanto si è fatto con i soldi del periodo 2014-2020 dovrà essere integrato da un’enorme dose di contenuti. In maniera un po’ industriale, è come se l’Europa coscientemente abbia individuato due fasi nello sviluppo delle città: nella prima ha badato ai contenitori, nella seconda ai contenuti. Nella prima ai mattoni, nella seconda ai neuroni. In realtà è chiaro che mattoni e neuroni devono andare di pari passo nella progettazione e nella rendicontazione, non possiamo definire un piano regolatore senza avere un piano strategico di sviluppo, sarebbe come guardare al corpo umano concentrando le cure ora sullo scheletro ora sui muscoli e non su entrambi in contemporanea.

Oggi, grazie a sistemi informativi integrati, possiamo coinvolgere ogni tipo di cittadino in ogni fase della sua attività quotidiana. Si può lavorare insieme, tra pubblico e privato, per utilizzare al meglio tali straordinarie risorse. Tre esempi per tutti: formazione dei cittadini e manutenzione dello spazio pubblico; imposta di soggiorno e post-care marketing del visitatore; raccolta dati sia numerici sia iconici della qualità della vita da parte degli abitanti e azione conseguente delle aziende di servizio pubblico.

Ma tutto ciò è reso possibile solo da una cultura urbana diffusa, dalla scuola di base fino agli operatori economici presenti nei territori (non solo albergatori e ristoratori, ma anche semplici commercianti e in primis ancora una volta i dipendenti pubblici). Una sfida necessaria per le città italiane ed europee per riprendere il decoro loro proprio e non diventare, in un futuro molto prossimo, «esotiche».

Manager culturale, fondatore di Culture&Cities

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