Una idea degli affari e degli imprenditori velata di pessimismo
«Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. (...) Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari». Della certamente originale omelia che l’arcivescovo di Milano, Mons. Delpini, ha pronunciato in occasione del funerale di Silvio Berlusconi, è questo il passaggio che di più ha colpito la mia sensibilità di economista
di Luigino Bruni
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«Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. (...) Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari». Della certamente originale omelia che l’arcivescovo di Milano, Mons. Delpini, ha pronunciato in occasione del funerale di Silvio Berlusconi, è questo il passaggio che di più ha colpito la mia sensibilità di economista. Da tempo guardo all’economia dalla prospettiva dell’Economia civile, e da qualche anno sono coordinatore scientifico di The Economy of Francesco, un vivace movimento di giovani economisti voluto da Papa Francesco. Il vescovo di Milano non è un economista, lo sappiamo, e quindi riporta nel suo comunicare un pregiudizio molto radicato nel discorso sugli «affari» e sugli «uomini d’affari» normali.
La definizione è tautologica: l’uomo d’affari fa affari, è un businessman, e molti commentatori non hanno ravvisato nulla di strano in questa definizione, all’apparenza pacificante e vera. Manca infatti nel nostro Paese una riflessione profonda e pubblica sul mestiere dell’imprenditore e sull’imprenditrice, una figura che nel mondo cattolico, latino e meridiano ha sempre fatto un’immensa fatica a essere accettata tra le parole buone – la nostra bella Costituzione Repubblicana non ha «imprenditore» tra le sue parole, né «impresa», perché considerati sostantivi troppo bassi e impolverati per fondarci il lessico democratico.
Alcune delle parole dell’omelia colpiscono di più: «Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui». Il tono e il senso di queste frasi dell’omelia si presentano come una definizione ovvia dell’operato degli imprenditori ordinari, una descrizione di quanto accade tutti i giorni nei nostri mercati e nelle nostre imprese.
In realtà, in quella frase risuona un’eco di quel pessimismo antropologico relativo al mestiere degli imprenditori che il cattolicesimo ha in parte creato e dal quale non riesce a liberarsi. Un’idea che spesso trascende la realtà e non tiene conto dei profondi cambiamenti nello spirito di chi fa oggi impresa.
Se qualcuno provasse a osservare gli imprenditori e le imprenditrici in carne e ossa scoprirebbe spesso un altro mondo. Scoprirebbe, ad esempio, che l’impresa e il mercato sono soprattutto una faccenda di fiducia: ci si fida, ogni giorno, di lavoratori, fornitori, clienti, pubblica amministrazione, banche (credito: credere), persino dei concorrenti, e ci si fida di loro molto più di quanto chi guarda da fuori pensa e crede. Perché chi fa impresa sa che senza rischiare e ogni tanto sperimentare tradimenti della fiducia data, l’impresa sprofonderebbe in un’insufficienza di capitale relazionale che la porterebbe a morire, perché se non si fidasse troppo degli altri non si fiderebbe mai abbastanza. Il mercato, gli affari, sono affare di «mutuo vantaggio» (Adam Smith), di «mutua assistenza» (Antonio Genovesi), comunque sempre una faccenda di reciprocità civile; sono un immenso network fatto soprattutto di fiducia, di persone che sanno fidarsi, e un imprenditore che non sa fidarsi degli altri più di quanto gli assicurino i contratti, deve solo cambiare mestiere. Perché i contratti pensati e disegnati per fare a meno della fiducia finiscono per distruggerla, e con essa distruggono gli affari di tutti. La fiducia è come la salute: ci si accorge del suo valore immenso solo quando non c’è più.
L’omelia continua: «Guarda ai numeri e non ai criteri. Deve fare affari». Monsignor Delpini non ci specifica quali siano questi «criteri» da non guardare, ma il contesto delle parole suggerisce che siano criteri (morali?) che inficerebbero quei numeri che senza quei criteri gli affari crescono di più. Questo è certamente un messaggio pericoloso e non condivisibile, perché criteri etici, ambientali, sociali, persino fiscali guidano il lavoro di chi fa oggi giorno impresa. Anche chi non guarda a nessun criterio segue un criterio, e sono davvero pochissimi, se ce ne sono, gli imprenditori che guardano solo ai numeri senza altro criterio. Tutti i giorni le imprese guardano ai lavoratori, guardano ai clienti, guardano soprattutto alla loro coscienza, che resta il criterio di ogni mestiere, compreso quel mestiere incompreso dell’imprenditore.
Quando invece un operatore economico guarda solo ai numeri, lascia l’universo imprenditoriale ed entra in quello degli speculatori, soggetti e istituzioni che guardano soltanto alla massimizzazione dei numeri: ma siamo in un altro mondo, un mondo molto lontano da quello che la Chiesa con i suoi insegnamenti propone alle persone.
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