ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùGuerra e diritto

Una idea della giustizia capace di misurarsi con la paura più grande

La sola ipotesi di un conflitto mondiale fa riflettere sull'applicabilità degli schemi più consolidati

di Luciano Eusebi

(uwimages - Fotolia)

3' di lettura

Lo scorso 27 marzo, con un elzeviro su queste pagine dal titolo Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria, Natalino Irti denunciava l’inanità del diritto rispetto ai fatti più tragici della storia: nei cui confronti si leva solo «al tramonto», quando il non-diritto ha già ridisegnato i rapporti e il diritto viene riscoperto dai vincitori, che «ne invocano le forme redentrici e punitrici». Un giudizio riferito, peraltro, alle norme costituzionali e internazionali, e non a quelle civili o penali: poiché volte a regolare, invece, il «corso normale della vita».

Rimane curioso, tuttavia, che lo strumento di giustizia più celebrato e acuminato – il diritto penale – non abbia opposto resistenza alcuna alle tragedie epocali dell’umanità, foriere di danni e di vittime in misura incomparabilmente maggiore di tutti i delitti che esso punisce. Fino a lasciare l’impressione di aver rappresentato l’alibi perché ci si possa sentire giusti senza occuparsi delle ingiustizie più grandi. Anzi, di non essere affatto innocente rispetto a esse: ove solo si consideri che i criteri tradizionali di legittimazione della pena e della guerra giusta (qualifica sempre rivendicata dai belligeranti) sono stati, nel corso della storia, gli stessi.

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Il diritto penale, in effetti, ha istituzionalizzato lo schema per il quale la relazione con l’altro presuppone un giudizio su di lui e si sostanzia in un agire corrispettivo che ne implichi sofferenza e danno, ove quel giudizio risulti negativo. Schema assai pericoloso giacché funge da moltiplicatore del male, essendo sempre ravvisabile qualche colpa in un altro, onde legittimare forme di ostilità. Ma tanto più inquietante se si constata che un simile giudizio ha finito per riguardare la stessa esistenza di realtà altre, perché non conformi agli interessi, o alle visioni, di valutatori nient’affatto neutrali. Il che ha rappresentato la logica di tutte le guerre, come di Auschwitz, dei gulag, dei genocidi.

Quello schema della giustizia ha dunque radici profonde, ma esige, oggi, un sussulto antitetico, che solo la coscienza del pericolo incombente può rendere ipotizzabile: posto che da decenni il futuro del genere umano non è scontato e che, non avendo costituito il 1989 la fine della storia, ben la potrebbe costituire, in altro senso, il prossimo conflitto mondiale.

Eppure, proprio l’evolversi dell’approccio al diritto penale appare in grado di offrire stimoli rilevanti per il contrasto del ricorso alla guerra. In un triplice senso.

Vi è sempre maggiore consapevolezza, anzitutto, circa l’inefficacia del connubio tra sanzioni ritorsive e prevenzione, posto che questa, fermo il contrasto dei profitti illeciti, dipende dai livelli dell’adesione personale ai precetti normativi, che risulta rafforzata attraverso gli stessi percorsi reintegrativi (destabilizzanti per le associazioni criminose) di chi abbia commesso un reato. Da cui forme di risposta al medesimo aventi natura progettuale, affrancate dal modello del negativo per il negativo. E un’idea del fare giustizia consistente nell’agire onde rendere giusti, per tutti, rapporti che non lo siano stati.

Emerge, poi, il ruolo cardine della prevenzione primaria, cioè dell’intervento sui fattori che favoriscono gli eventi lesivi: troppe volte negletto, perché incide su interessi diffusi e implica ammettere corresponsabilità. Senza che infici la gravità di tali eventi: affermare che quello di Versailles fu un pessimo trattato di pace non vuol dire giustificare Hitler. Ne deriva, piuttosto, la necessità di condotte remote esenti da egoismi o intenti di potere: si nolis bellum, para iustitiam et pacem. Molti dovrebbero riflettere.

Da ultimo, il diritto penale odierno rende palese, attraverso le procedure di restorative justice, come non siano impraticabili percorsi riconciliativi, fondati sul recupero della verità, anche quando sia stato fatto molto male.

Si può sperare che nasca dal basso, dai popoli del mondo, l’opzione per una giustizia diversa, che raccolga simili impulsi? Così da rappresentare ai governanti che non ci si riconosce più nella prospettiva secondo cui il proprio bene personale sarebbe tutelato al meglio in termini di competizione tra le realtà politiche di appartenenza. E così che i popoli non siano più ostaggio di vicende che li sovrastano e di cui pagano il prezzo. Utopia? Se l’alternativa è la catastrofe, varrebbe la pena offrirle una chance.

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