Una rivoluzione di genere a portata di mano
di Paola Profeta
3' di lettura
Gli ultimi decenni hanno visto profonde trasformazioni nel ruolo delle donne: partendo dall’investimento in istruzione universitaria, le donne hanno iniziato a inserirsi nel mondo del lavoro - sia pure con differenze marcate tra i Paesi sviluppati - a costruire la loro identità professionale prima e indipendentemente dal matrimonio e ad avere un ruolo economico e sociale non più esclusivamente fondato sulla famiglia. In parallelo, abbiamo assistito a un declino dei tassi di fecondità: famiglie sempre meno numerose, soprattutto in presenza di mamme lavoratrici.
A distanza di decenni, la situazione è cambiata: avere figli e lavorare non sembra più una scelta alternativa per le donne. Nei Paesi dove le donne partecipano di più al mercato del lavoro, anche i tassi di fecondità sono più alti. Questo è possibile in presenza di politiche pubbliche che favoriscono sia il lavoro delle madri sia la fecondità (per esempio, gli asili nido), o grazie alla diffusione di modelli culturali in cui stereotipi e pregiudizi nei confronti delle mamme lavoratrici e delle mamme come uniche responsabili della cura dei figli e della casa risultino ormai superati.
Un elemento fondamentale per il passaggio a questa seconda fase del cambiamento è il ruolo dei padri. Le differenze di genere nascono all’interno della famiglia, nella divisione marcata dei ruoli tra uomini e donne nelle attività domestiche e nella cura dei figli. L’argomento è intuitivo: più il carico del lavoro domestico e della cura dei figli viene diviso tra padre e madre invece di restare esclusivamente sulla madre, come in passato, più è possibile per la donna combinare lavoro e famiglia e superare il trade-off tra lavorare e avere figli.
In un recente studio con Ester Fanelli abbiamo cercato di testare empiricamente questo semplice argomento. Abbiamo analizzato le risposte di uomini e donne ai questionari della Generations and Gender Survey (Ggs). Un primo questionario sottoposto agli individui ci permette di ottenere informazioni sulle caratteristiche demografiche e socio-economiche di ciascuno e del proprio partner (età, istruzione, condizione lavorativa, numero ed età dei figli ecc.) e sulla suddivisione del lavoro domestico e della cura dei figli (se ci sono) con il proprio partner. Dopo qualche anno, gli stessi individui devono rispondere a un secondo questionario da cui possiamo ricavare se nell’intervallo di tempo hanno avuto un altro figlio (o il primo, se non ne avevano) con lo stesso partner.
I dati ci dicono che le donne che hanno un partner più collaborativo nell’attività domestica e nella cura dei figli hanno una maggiore probabilità di avere un secondo figlio e di continuare a lavorare quando sono osservate dopo qualche anno. Per gli uomini invece il lavoro della donna a casa non ha alcun effetto. Per evitare che il nostro risultato dipenda dal fatto che le donne che vogliono avere figli scelgano un partner più collaborativo, o che uomini che vogliono avere figli svolgano più lavori domestici e passino più tempo con i bambini, abbiamo confermato i risultati considerando solo il campione di individui che hanno dichiarato nel primo questionario di voler avere un figlio entro 3 anni e/o che il proprio partner voleva averne. È interessante sottolineare che nelle nostre analisi il lavoro domestico risulta più significativo della cura dei figli nella decisione della donna sia di avere un figlio sia di lavorare.
Avanti, quindi: basta avere più padri che lavano i piatti - l’attività domestica che nelle nostre analisi risulta avere il ruolo più importante - e avremo più bambini e più donne che lavorano. Un’ottima notizia: cosa è qualche piatto in più da lavare in casa per gli uomini a fronte di un aumento del tasso di fecondità e del tasso di occupazione delle madri che si traducono in un guadagno economico per tutti? È l’inizio della seconda fase di una rivoluzione, semplice, silenziosa, ma potentissima.
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