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Il 16 settembre la riforma della giustizia tributaria (legge 130/2022), che, secondo le ambizioni del legislatore, avrebbe dato un nuovo volto all’intero contenzioso tributario, compie un anno.
Sotto il profilo organizzativo, il processo tributario telematico rappresenta obiettivamente un grande successo in termini di funzionalità e semplificazione. Basta confrontarlo alle piattaforme utilizzate per altre tipologie di processi per rendersi conto dell’elevata qualità ed efficienza. Va, poi, segnalato che alcune corti tributarie funzionano molto bene.
Tuttavia, tolte queste eccezioni, qualunque addetto ai lavori può confermare che, nei fatti, poco sia cambiato nel corso di quest’anno.
Ancora una volta, appare singolare che non si riesca a efficientare e presidiare adeguatamente un comparto così importante dello Stato, che ha rilevanti ripercussioni non solo sotto il profilo economico ma anche per la fiducia dei cittadini.
È ovviamente difficile individuare le reali cause di questa situazione. Dall’esterno gli addetti ai lavori possono limitarsi a evidenziare quanto di negativo sia quotidianamente percepito nelle aule tributarie, con la consapevolezza che non necessariamente si tratti delle uniche e determinanti cause.
Innanzitutto c’è la sensazione che molti giudici vivano l’esperienza come un’attività secondaria rispetto a quella principale, subordinata agli altri impegni professionali e istituzionali. Tale situazione ha di certo una concausa nell’irrisorio trattamento economico (almeno se riferito a chi non ricopre incarichi apicali nelle corti). Del resto se un giudice svolge un altro lavoro impegnativo (si pensi a incarichi di vertice nelle altre magistrature, a incarichi istituzionali o attività professionali importanti) mal si comprende come si possa pretendere che trascuri tale attività per dedicarsi senza limiti alle cause tributarie. A questo proposito la legge 130/2022 aveva introdotto l’esclusività e la specializzazione dei giudici, ma a oggi non c’è alcun concreto effetto di tale modifica. Peraltro, avendo puntato solo sui giudici “togati”, considerando quelli “non togati” quasi di livello inferiore (il che è incomprensibile e in molti casi smentito nei fatti) si è verificato quanto pronosticato da vari commentatori: ben difficilmente un magistrato abbandona il ruolo raggiunto nelle altre magistrature, spesso dopo lunghe carriere, per indossare i panni del magistrato tributario.
In questo contesto, pur ribadendo che in alcune corti tributarie la situazione è di piena efficienza, in altri casi ci sono situazioni di mancata osservanza di alcune regole. Si pensi alla fissazione delle sospensive che quasi mai avviene nei trenta giorni o all’esito quasi mai comunicato immediatamente alle parti. Le udienze a distanza ancora oggi in alcune corti non sono svolte per problemi tecnici (non considerando che da settembre lo strumento è obbligatorio per giudizi cautelari e monocratici).
Per tralasciare, poi, le questioni di merito: sarebbe, ad esempio, interessante conoscere per quali ragioni le spese cui viene condannato il contribuente siano sempre maggiori rispetto a quelle della parte erariale (eppure la norma prevede il contrario!).
Purtroppo queste (e altre) situazioni non mortificano solo i difensori, ma l’intero sistema, travolgendo anche i giudici che con dedizione e passione adempiono alle loro incombenze.
Ora la delega fiscale prevede nuove modifiche. A ben vedere, si rischia, ancora una volta, di intervenire su norme processuali non pienamente rilevanti rispetto al funzionamento del processo. In altre parole, le misure da introdurre - si pensi all’impossibilità di produrre nuovi documenti in appello, piuttosto che l’appellabilità delle ordinanze di sospensiva - non risolvono i problemi della giustizia tributaria e non potranno mutare nella sostanza l’attuale situazione.
Sfugge così che la maggioranza degli addetti ai lavori, più che a queste modifiche, è interessata solo al funzionamento dell’apparato.
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