Una vittoria che sa di autolesionismo
di Dario Braga
3' di lettura
L’argomento “numero chiuso” all’Università tiene banco sui quotidiani. La sospensiva imposta dal Tar alla decisione della Statale di Milano di istituire prove di accesso per i corsi di area umanistica (lingue, beni culturali lettere, filosofia ecc.) è stata salutata da molti - associazioni studentesche, molti docenti, social network ecc. - come una “vittoria”. Il Tar in questo caso ha fatto quello che un pubblico, apparentemente vasto, desiderava: ha ristabilito il diritto degli studenti di iscriversi ai corsi che preferiscono, per i quali si sentono più portati e che meglio rispondono alla loro visione del futuro. Tutto bene quindi?
Domanda retorica.
Se vivessimo in un mondo ideale in cui la Cultura (ho usato la maiuscola appositamente) prevale sulle preoccupazioni umane e sulla necessità di procurarsi un salario decente una volta terminati gli studi potrebbe anche starci, ma così non è. Tuttavia parlare di sbocchi occupazionali e di salario non è un buon modo per affrontare il tema. Il problema c’è ed è enorme, ma spesso non supera la barriera cognitiva forse perché percepito come lontano nel tempo da chi si iscrive oggi. E nemmeno voglio tornare sul tema del deficit di laureati tecnico-scientifici in Italia (Sole 24 ore 14/6).
In questo intervento vorrei proporre un ragionamento diverso, forse addirittura più vicino al sentire di chi rivendica il diritto alla libertà di scelta. Assumiamo per un momento che il problema del “dopo la laurea” non ci sia e assumiamo che il sistema universitario sia organizzato coerentemente con il principio della libertà di accesso. C’è un immediato corollario: la pari dignità degli studenti davanti alla istituzione universitaria, cioè il diritto conseguente di ricevere lo stesso trattamento indipendentemente dal corso di elezione, sia esso chimica o filologia, lingue o informatica. Per gli studenti di scienze umane e anche sociali e giuridiche si tratta, in pratica, di poter contare su infrastrutture e docenza proporzionata alla domanda: aule in grado di contenere tutti gli iscritti, senza studenti seduti per terra o necessità di presentarsi a lezione in anticipo per potersi garantire un posto a lezione, biblioteche, laboratori informatici, e sale studio adeguate, ecc.
Diritti simmetrici poi avrebbero i docenti. Non dovrebbe essere loro richiesto di fare lezione a centinaia di studenti ed esaminarne centinaia e riceverne centinaia e leggere centinaia di tesi. A questo fine il corpo docente dovrebbe avere una numerosità proporzionale al numero di studenti. In altre parole, in un sistema senza vincoli, la piena libertà di scelta degli studenti dovrebbe tradursi in una coerente espansione del corpo docente.
La pari opportunità deve poi essere garantita non solo in ingresso ma anche per la prosecuzione degli studi, vuoi che siano basati sul 3+2+3 (triennale, magistrale, dottorato) o sul 5 + 3 (ciclo unico di dottorato) il che implica che anche i posti di dottorato e il numero di borse di studio dovrebbero essere in proporzione, con i conseguenti problemi di sostenibilità finanziaria.
Se poi si tiene in conto anche l’altro “principio di libertà” dell’Università italiana, cioè la partecipazione su base facoltativa alle attività formative (l’obbligo di frequenza esiste solo in corsi di laboratorio e nemmeno in tutti), con frequenza delle lezioni se e quando ritenuta utile, sostenendo gli esami quando si ritiene di poterlo fare e ripetendoli, se necessario, più volte fino al raggiungimento del risultato voluto, si può comprendere come diventi complessa la politica dell’uso delle risorse universitarie.
La contraddizione è palese. Nessun ateneo può pensare di avere un corpo docente (possibilmente non precario, s’intende) e infrastrutture in grado di seguire i flussi dei desiderata degli studenti. Nemmeno in una condizione di finanziamento molto più ampio di quello attuale.
C’è però un elemento che viene dimenticato nel dibattito “social” sul numero programmato. Esso non preclude, come qualcuno dice e scrive, l’accesso alla formazione nei settori delle scienze umane e sociali. Come avviene per tanti altri corsi dove esso esiste da anni, gli studenti non ammessi in una sede possono, se motivati, trovare spazio in altre sedi. Il numero programmato – eventualmente coordinato su base regionale - consente infatti di distribuire la richiesta su numero più ampio di sedi aumentando la qualità della didattica e “sgonfiando” la pressione enorme che viene caricata sui docenti nelle sedi / città con maggiori capacità di attrazione. In un sistema coordinato gli studenti avrebbero accesso a infrastrutture più adeguate e apprenderebbero meglio e ai docenti rimarrebbe più tempo per lo studio e la ricerca che è linfa vitale della buona didattica. Insomma, cambiando punto di vista, la “vittoria” sul numero programmato può anche apparire come un atto di autolesionismo.
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