Uno sguardo più attento all’India
Sembra che con l'ascesa di Modi nel 2014, l'India si sia allineata alle autocrazie che ormai dominano l'Asia da Ovest a Est
di Carlo Carboni
4' di lettura
Sembra che con l'ascesa di Modi nel 2014, l'India si sia allineata alle autocrazie che ormai dominano l'Asia da Ovest a Est. Considerata la più grande democrazia al mondo fino al 2014 (27° nel Democracy Index), nel 2022 è crollata al 108° posto, nel gruppo dei paesi a regime ibrido. Questa evaporazione della democrazia indiana è emblematica dell'attuale stato contraddittorio e recessivo delle democrazie nel mondo. È anche frutto e simbolo di decenni di “distrazione” dell'Occidente democratico verso un paese divenuto a gennaio di quest'anno il più popoloso al mondo, quinta economia mondiale (sarà la terza entro il 2030) e un mercato interno che si amplia a tutto il subcontinente indiano. Modi ha impersonato questo regresso democratico dell'India nei nove anni di suo premierato. Del resto, c'erano tutte le premesse prima della sua ascesa: la sua formazione politica nel Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un'organizzazione paramilitare di volontari di estrema destra, nazionalista Hindu e, dopo il suo ingresso nel Bharatiya Janata Party (BJP), il sospetto di un suo coinvolgimento negli oltre mille morti (di cui circa 800 musulmani) per le rivolte del 2002 nel Guajarat, stato indiano di cui era al tempo governatore. Negli anni di suo premierato, coerentemente con i suoi principi nazionalisti hindu, ha ridotto la cittadinanza indiana a un'appartenenza religiosa e razziale, violando il principio costituzionale di laicità dello stato.
Del resto nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni contro le minacce alla democrazia indiana, soprattutto dopo il vespaio suscitato dalla condanna a due anni del leader dell'opposizione Raul Ghandi per aver diffamato il nome Modi. La condanna ha comportato che Gandhi venisse anche escluso dal Lok Sabha (parlamento). Se in appello la condanna non sarà almeno mitigata, in base un'ordinanza della Corte Suprema del 2013, a Gandhi potrebbe essere preclusa la candidatura alle elezioni politiche del 2024.
Il malessere democratico indiano si specchia inoltre nel malessere sociale di un paese ancora alle prese con una lancinante povertà: un terzo della povertà mondiale (sotto 2 $ giornalieri) è concentrata qui. L'Oxford Poverty e Human Development Iniziative (2022) stima 230 milioni di poveri (97 milioni di bambini, il 90% nelle aree rurali). Undici milioni di disoccupati e solo 1 donna su 10 è regolarmente occupata (in Cina 7 su 10!). Ogni anno mediamente dovrebbero essere assorbiti 12 milioni di nuovi ingressi dai mercati del lavoro interni, ma il tasso di partecipazione al lavoro ristagna dal 2014: solo il 40% della popolazione in età lavorativa è occupata o in cerca di un impiego. La prodigiosa crescita economica degli ultimi anni, più che frutto inerziale del dividendo demografico, sembra dovuta al notevole apporto dei settori produttivi e di servizio più avanzati, dei tre stati più sviluppati dell'India, delle cinque prime città più ricche (Delhi, Mumbai, Chennai, Hyderabad e Bangalore) e dei grandi gruppi come Ambani, Andani,Tata, Birla, Maruti Suzuki, Mahindra, che hanno beneficiato del dinamismo dei mercati interni. Le disparità tra stati sono micidiali: i 4.400 $ reddito pro-capite medio di Delhi e i 700 $ medi annui del Bihar (Statista 2021).
La ricca disponibilità di manodopera è una costante di lungo periodo in India, un punto di forza potenziale mai pienamente impiegato per carenze di domanda, ma oggi anche per mancanza di competenze in gran parte delle aree rurali. I mercati del lavoro indiani sono attraversati da profonde segmentazioni e disuguaglianze tra stati, genere, età, di casta, razza e religione, tra competenze high tech e diffusa precarietà nei servizi privati di base al mercato. Il lavoro nero è inestimabile, diffuso anche come secondo lavoro dei già occupati. La giungla dei mercati del lavoro indiani si scarica sulla stratificazione sociale, in parte ancora segnata dalle caste. L'eroismo silenzioso per sopravvivere di 230 milioni di poveri, l''esistenza senza coordinate certe, con mille acrobazie, di oltre 600 milioni di cittadini tra 2 e 10 $ al giorno e una classe media che balla tra gli 80 milioni di persone secondo parametri europei e i 3-400 milioni, secondo parametri ragionevoli per l'India. C'è infine il 10% più ricco che dal 1990 ha decuplicato la sua ricchezza, rispetto alla classe media che l'ha solo raddoppiata (S. Krishnan, N. Hatekar 2018). La classe media in India cresce (mentre in Occidente è in declino), ma è ancora fragile in un quadro sociale in cui povertà, instabilità e insicurezza del lavoro sembrano costanti sempiterne. I problemi sociali non sono nati con l'ascesa di Modi, ma egli li ha aggravati riducendo la spesa per il welfare e cercando di metterli in sordina, assieme alla falla democratica delle discriminazioni razziali-religiose. Sta tentando di silenziare le contraddizioni interne in due modi. In primo luogo, sfruttando il suo carisma/ popolarità, ancora elevati sul mercato elettorale di 1,1 miliardi di induisti (oltre 200 milioni di musulmani, 30 milioni di cristiani e quasi altrettanti sikh). Il suo carisma si irradia per sua capacità di leader persuasore, in grado di ammaliare e di parlare direttamente al suo sterminato potenziale elettorale. In secondo luogo, per la prima volta in un'India tradizionalmente ripiegata al suo interno, Modi ha rovesciato sul tavolo globale la forza della crescita del suo paese, la sua ascesa verso il cerchio magico delle superpotenze mondiali. Non è però tutto oro ciò che luccica: c'è anche tanta bigiotteria scadente nella strategia di Modi. Oltre dover contenere la Cina, ha altri ostacoli al suo interno. Il Global Hunger Index (2022), riguardo la fame nel mondo, mette l'India al 107° posto su 121 paesi, una delle peggiori posizioni nell’Asia meridionale. Lo stesso sviluppo dell'India continua a risultare sottodimensionato (consistenza e velocità) rispetto a quello della Cina, ma anche, in termini relativi, rispetto ai competitori indocinesi e indonesiani. Servirebbero massicci investimenti stranieri per ottenere uno sviluppo più veloce e diffuso, ma sarebbe essenziale anche un'attenzione dell'Occidente alle sorti di questa democrazia in cui persiste, drammatica, la fame.
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