Ursula Hirschmann, memorie struggenti di una «senzapatria»
Berlino, la famiglia, la militanza, l’esilio, l’amore: torna la testimonianza dell’intellettuale, in cui si riconosce la parabola di una generazione di «europei erranti»
di Eliana Di Caro
4' di lettura
Si legge d’un fiato Noi senzapatria, e certamente è uno di quei libri di memorie che si prestano a una rilettura per cogliere sfumature o soffermarsi su aspetti sacrificati, di primo acchito, a vantaggio di altri. Nella sua agilità, infatti, il volume, appena ripubblicato dal Mulino, presenta diversi piani che si dipanano dallo sguardo dell’autrice Ursula Hirschmann, intellettuale non sufficientemente valorizzata dalla storiografia (e non le è stato d’aiuto, in questo senso, l’essere stata moglie di due personalità come Eugenio Colorni e Altiero Spinelli).
Ci sono lo spaccato sociale e politico della Berlino degli anni Trenta (città dove era nata nel 1913), la frustrante militanza socialista di fronte all’avanzata del partito nazista, l’esilio a Parigi, il ricordo accorato di antifascisti come Renzo Giua, la stagione triestina con Eugenio Colorni. Ognuno di questi passaggi si nutre di nomi, luoghi, situazioni anche solo accennate (e che per questo suscitano il desiderio, immediato, di saperne di più), riflessioni su quanto stava accadendo in quel cruciale tornante del Novecento. Noi senzapatria è incompiuto, Hirschmann nel 1975 fu colpita da un’emorragia cerebrale che la immobilizzò precludendole qualunque attività; così la lunga unione con Altiero Spinelli quasi non compare, se non per qualche fuggevole citazione e per la splendida fotografia (pubblicata in questa pagina), che arricchisce il memoir assieme ad altre immagini.
La vocazione europea maturata nel tempo, dal confino a Ventotene accanto agli autori del Manifesto alla creazione del movimento “Femmes pour l’Europe”, è tutta in quel senso di sradicamento con cui si apre il libro, che accomuna lei ai tanti della sua generazione: «europei erranti», che hanno «cambiato più volte di frontiera che di scarpe - come dice Brecht, questo re dei déracinés - anche noi non abbiamo altro da perdere che le nostre catene in un’Europa unita e perciò siamo federalisti».
Un sentimento che per Ursula è solo apparentemente in contrasto con l’emozione di tornare in Germania a più riprese negli anni Cinquanta e Sessanta, consapevole del fatto che, anche a distanza di molto tempo, la parola Heimat le fa sovvenire «le buie strade di Berlino Nord, con le case alte e strette, e dentro, la sera, le camere illuminate dove mio fratello e io andavamo ad ascoltare le parole sulla liberazione dell’uomo» negli incontri con gli operai del partito socialista. Sono le riunioni tra il ’31 e il ’33, quando la minaccia di Hitler incombe fino a diventare realtà, stravolgendo la vita borghese e spensierata della famiglia Hirschmann, cui Ursula riserva parole affettuose e taglienti allo stesso tempo.
Le prime sono per il padre, chirurgo figlio di un commerciante della Prussia orientale, dunque di origini più umili della mamma Hedvig Marcuse che proviene da un’agiata famiglia ebrea residente a Berlino da due generazioni. Con lei la primogenita è spietata, non solo perché ne sente la preferenza per il fratello Albert e la sorella Eva, quanto per il classismo (c’erano «i ricchi e i poveri», l’aspirazione era «di stare al passo con i magnati della finanza o dell’industria») e il complesso di superiorità intellettuale che improntavano la sua vita e le sue scelte, unitamente a un modus leggero e sbarazzino che Ursula non comprendeva. «Naturalmente votavano per il partito democratico, come tutta la gente che vedevamo a casa, ma non c’era in questo nessun vero impegno», scrive. Ancor meno la giovane capiva perché i compagni socialisti continuassero a non reagire di fronte al crescente potere dei nazisti, sminuendolo e minimizzandolo, con la preoccupazione semmai di non cadere nelle loro provocazioni. Fino a quando una sera, uscendo da una riunione, ammutoliscono: i bagliori del Reichstag in fiamme annunciano la fine della democrazia («Non ho più una patria, ma non sono stata io a darla via; mi fu tolta quando era ancora così mia, che io nemmeno sapevo di amarla», ricorda).
Arrivano le “leggi razziali”, non resta che andarsene e proseguire la lotta in Francia. È l’estate del ’33. Ursula e Albert (di soli due anni più giovane, futuro economista dello sviluppo a Princeton: a lui la sorella maggiore è attaccata più che ad ogni altra persona) si fermano in Normandia, poi vanno a Parigi, ma anche lì la delusione di una battaglia clandestina, che sembra loro inconcludente e per giunta condotta tra sospetti e veleni, li fa recedere dai propositi. Albert andrà in Spagna, lei scrive a Eugenio Colorni, filosofo italiano studioso di Leibniz, conosciuto nel ’32 alla Staatsbibiliothek di Berlino.
L’ultimo capitolo del volume è dedicato a lui e alla loro vita insieme a Trieste dal 1935, a come cresce la loro intesa e di pari passo come essa s’incrina, al rapporto di Colorni con la madre Clara Pontecorvo, a come Eugenio smonta l’approccio politico cerebrale e dogmatico di Ursula. La giovane conosce “l’italianità” e se ne innamora - il cibo, le passeggiate, il clima, i caffè - riscoprendosi piacevolmente borghese. Si fa in tempo a leggere qualcosa sulla maternità (nascono Silvia, poi Renata ed Eva) quando il racconto si interrompe brutalmente, come brutale è quell’emorragia alla fine del 1975, proprio nel rievocare il confino a Ventotene.
Rispetto alla diffusione del Manifesto e alla nascita del Movimento federalista europeo, Ursula avrà una parte tutt’altro che secondaria: è lei che, non essendo soggetta alle restrizioni inflitte ai confinati, lascia l’isola avendo con sé il testo del documento, scritto a matita su una carta leggera.
È lei a farlo conoscere negli ambienti antifascisti a Roma e Milano, a renderne partecipi a Melfi (il paese del Potentino dove nel frattempo viene spostato Colorni), Manlio Rossi-Doria, Franco Venturi ed altri; è lei che «ci trasmise le lettere di adesione o, più spesso, di critiche» e che «in collaborazione con Usellini e con Cerilo Spinelli pubblicò nel 1943 il primo numero clandestino di Unità europea», il giornale dei federalisti: così Altiero Spinelli nelle sue memorie (Come ho tentato di diventare saggio, il Mulino 1984) riconosce il ruolo fondamentale della madre delle sue tre figlie Diana, Barbara e Sara. «Quantunque formalmente il Movimento Federalista europeo sia stato fondato da Rossi e da me, dopo la caduta di Mussolini (…) in realtà la prima vera fondatrice fu durante l’anno precedente Ursula Hirschmann».
Noi senzapatria
Ursula Hirschmann
il Mulino, pagg. 159, € 12
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