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Usa, la Fed «stringe» di 75 punti base, i tassi puntano oltre il 4,50%

Il Federal Open Market Committee (Fomc), l'organismo della Federal Reserve responsabile della politica monetaria degli Stati Uniti, ha infatti annunciato un aumento dei tassi d’interesse di 75 punti base al 3-3,25%, livello che non veniva raggiunto dal 2008

di Riccardo Sorrentino

La Borsa, gli indici del 21 settembre 2022

3' di lettura

Un nuovo, aggressivo, rialzo dei tassi da 0,75 punti percentuali. L’indicazione di nuovi rialzi e, soprattutto, la previsione di una stretta decisamente più rapida e intensa di quella prospettata a giugno. Sono queste le indicazioni emerse nella riunione di settembre della Federal reserve.

Il Federal Open Market Committee (Fomc), l'organismo della Federal Reserve responsabile della politica monetaria degli Stati Uniti, ha annunciato un aumento dei tassi d’interesse di 75 punti base al 3-3,25%, livello che non veniva raggiunto dal 2008. Si tratta del quinto rialzo dei tassi consecutivo, il terzo di fila da 75 punti base. A marzo, la Banca centrale statunitense aveva annunciato il primo rialzo dei tassi d’interesse (di 25 punti base) dal dicembre 2018.

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Il rialzo era previsto, e la diagnosi dello stato dell’economia emersa nel comunicato è rimasta poco variata: soprattutto alta inflazione, bassa disoccupazione, anche se la spesa e la produzione, che a luglio erano considerate solo in indebolimento, appaiono ora in modesta crescita.

A cambiare davvero il quadro sono stati i “dots”, le indicazioni sul percorso dei tassi fornite dai singoli governatori. A giugno la mediana delle stime indicava un punto di arrivo per fine anni al 3,25-3,50%, un livello appena superiore a quello attuale. Adesso la misura del consensus punta invece al 4,25-4,50%, che corrisponde ad almeno un altro rialzo da 75 punti base più uno da 50 nelle due riunioni di novembre e dicembre.

Per l’anno prossimo, la Fed immagina di portare i tassi poco più in alto, in realtà: al 4,50-4,75%, che però è un livello più alto del 3.75-4% delle proiezioni di giugno. Non è quindi, quella prospettata oggi, solo un’accelerazione della stretta ma anche di un’innalzamento di quello che potrebbe essere considerata una stima del tasso terminale. Sarà ora importante, ha detto il presidente Jerome Powell in conferenza stampa, che tutta la curva reale dei rendimenti raggiunga valori positivi. Per il 2024, invece, la Fed immagina l’inizio della normalizzazione, con tassi a fine anno al 3,75%-4% (dal 3,25-3,50% indicati a giugno), per passare nel 2025 al 2,75-3%. Il tasso di lungo periodo, un’indicazione del tasso neutrale o dell’obiettivo della banca centrale, è stato confermato nel 2,5 per cento.

Le proiezioni macroeconomiche puntano a un pil in crescita del solo 0,2% quest’anno, dell’1,2% nel 2023, dell’1,7% nel 2024 e dell’1,8% nel 2025, corrispondente alla crescita di lungo periodo. L’inflazione dovrebbe passare dal 5,4% di quest’anno, al 2,8% nel 2023, al 2,3% nel 2024 per tornare all’obiettivo del 2% nel 2025. La disoccupazione, a fronte di un livello di lungo periodo confermato al 4% dovrebbe passare dal 3,8% di quest’anno - un livello potenzialmente inflattivo - al 4,4% nel 2023 e nel ’24, per calare leggermente al 4,3% nel 2025.

La Fed non nasconde più l’impatto che la sua stretta sta avendo sull’attività economica e conferma quindi di scommettere sulla curva di Phillips: ridurrà occupazione e salari per raffreddare i prezzi. «Non diremo mai che ci sono troppe persone che lavorano, ma la questione vera è questa», ha detto. Qualcosa sta già accadendo. «La crescita nella spesa per i consumi ha rallentato rispetto all’anno scorso, in parte a causa di redditi più bassi, in parte per le condizioni più restrittive», ha detto Powell, che ha aggiunto: «L’attività nel settore delle costruzioni sta rallentando, in gran parte per i più alti tassi dei mutui. Tassi di interesse più elevati appaiono pesare sugli investimenti aziendali fissi».

Soprattutto, il presidente Powell ha più volte sottolineato la forza del mercato del lavoro – malgrado qualche «modesto» segnale di raffreddamento su salari e occupazione – e la necessità di assistere a una vera riduzione della domanda di lavoro, pur nella consapevolezza che l'alta inflazione e la conseguente politica monetaria sta ponendo una sfida importante al doppio mandato della banca centrale che, evidentemente, ha spostato nel lungo periodo il raggiungimento dell'obiettivo nella massima occupazione per concentrarsi sulla lotta all’inflazione.

La durata delle stretta dipenderà quindi da quanto tempo occorrerà perché i salari, e quindi i prezzi scendano, ha aggiunto il presidente. Powell ha anche fatto riferimento ai risparmi in eccesso delle famiglie americane «che ricevono ancora trasferimenti dal governo». Ha evocato così i due fattori che hanno tenuto alta la domanda e hanno contribuito, insieme ai fattori sul lato dell’offerta, a surriscaldare l'economia e i prezzi, ma ha anche fatto un riferimento implicito - di più non era possibile - alla necessità che anche i bilanci pubblici sostengano gli sforzi della banca centrale perché i costi della stretta siano meno elevati.

«Vorrei che ci fosse un modo indolore per fare tutto questo - ha detto Powell - ma non c’è». Ritardare o fallire nel compito di riportare in basso dell’inflazione, ha però aggiunto, è ancora più doloroso.

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