Usa-Iran, così i mercati si preparano a gestire l’evoluzione della crisi
Ecco perché, dopo la volatilità dei giorni scorsi, è tornato il sereno sui listini e quale potrebbero essere le reazioni in caso di escalation
di Andrea Franceschi
3' di lettura
La reazione del presidente americano Trump agli attacchi missilistici dell’Iran alle basi americane in Iraq in risposta all’uccisione del generale Soleimani è stata improntata alla cautela. Nel vantare l’enorme potenziale di fuoco dell’esercito americano il numero uno della Casa Bianca ha sottolineato, nel corso della conferenza stampa tenuta mercoledì, quanto tale potenza svolga soprattutto una funzione deterrente. Un modo come un altro per dire che gli Usa non hanno alcun interesse ad alimentare un’escalation di tensione con l’Iran.
La notizia è stata accolta positivamente dai mercati: oro e petrolio, due classi di investimento che avevano beneficiato della tensione dei giorni scorsi, si sono deprezzati mentre le Borse hanno guadagnato terreno. Sul mercato dei titoli di Stato i tassi dei Treasury a 10 anni, che in mattinata avevano toccato nuovi minimi da un mese all’1,71%, sono rimbalzati all’1,81% e lo stesso si è visto anche nel caso di altri bond rifugio come i Bund tedeschi i cui tassi erano scesi sotto quota -0,29% e che si sono riportati in chiusura a quota -0,26 per cento.
Le tensioni tra Stati Uniti e Iran hanno alimentato la volatilità, soprattutto sul mercato delle materie prime, ma a conti fatti il saldo quattro sedute dopo l’omicidio del generale iraniano, risulta invariato sulla maggior parte delle classi di investimento. A partire da quelle più direttamente interessate dagli scossoni di questi giorni: il prezzo del petrolio Brent, ad esempio, è tornato a quota 65 dollari dove si attestava prima dell’uccisione di Soleimani. Stesso discorso per l’oro, le Borse e i titoli di Stato.
Tanto rumore per nulla quindi? È presto per dirlo così come è difficile fare previsioni sull’evoluzione della complicata partita mediorientale. Resta il fatto che i mercati, al netto dell’inevitabile volatilità di breve termine, si stanno confermando relativamente resilienti alla variabile geopolitica.
Gli investitori stanno imparando a conoscere meglio l’approccio poco ortodosso di Trump in politica estera caratterizzato da una retorica aggressiva e sopra le righe che si accompagna a un atteggiamento decisamente più pragmatico quando si tratta di concretizzare. Lo si è visto ad esempio in occasione della crisi del 2017 con la Corea del Nord. Ma anche nell’ultimo anno e mezzo di schermaglie con la Cina sul tema della guerra commerciale. In entrambi i casi i mercati hanno reagito male nell’immediato per poi recuperare terreno nel medio termine. Perché nell’immediato Trump ha fatto salire la tensione (favorendo l’avversione al rischio sui listini), ma poi ha sempre cercato il compromesso.
La scommessa di molti è che, anche con l’Iran, Trump mostri la faccia feroce ma alla fine non sia disposto a lanciare un’offensiva militare da cui avrebbe più da perdere che da guadagnare. D’altrocanto è difficile valutare quanto la crisi con l’Iran sia paragonabile ai precedenti con Corea del Nord e Cina. Con Pyongyang l’escalation è stata solo retorica e nessun proiettile è stato sparato. Con Pechino la controversia è stata puramente economica. Con Theran la situazione è decisamente più delicata. Dalla crisi degli ostaggi del 1979, passando per la guerra Iran-Iraq, tra Washington e Theran la tensione è alta da quarant’anni e l’uccisione del generale Soleimani rappresenta l’atto di ostilità più grave dal 1979.
Ma anche nell’ipotesi che la crisi non si esaurisca nell’immediato e si arrivi a un conflitto militare vero e proprio, quali conseguenze potrebbero esserci sui mercati?
Chi investe è abituato a ragionare in maniera molto pragmatica. Basandosi sui precedenti: «Un mese dopo lo scoppio della prima guerra del Golfo - scrive Oliver Jones di Capital Economics - petrolio e metalli preziosi mostravano guadagni sostanziosi a fronte di una performance terribile dell’azionario. Sei mesi dopo il quadro si riequilibrò». E lo stesso si verificò anche in occasione di un conflitto ben più lungo: la guerra in Iraq del 2003. Secondo l’analista un conflitto avrebbe conseguenze pesanti nell’immediato sul mercato petrolifero ma nel medio-lungo termine «l’evidenza dimostra che questi conflitti finiscono per avere un impatto limitato sulle prospettive di crescita a livello globale».
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