Vaccini, gli ostacoli alla licenza obbligatoria
Per produrre su larga scala serve know how, non basta sospendere i brevetti
di Enrico Zanoli
4' di lettura
I mezzi di comunicazione hanno recentemente riportato prese di posizione diffidenti, se non critiche, al sistema dei brevetti, e i timori che essi possano ostacolare un’ampia disponibilità dei vaccini contro la pandemia.
Attribuire le limitazioni nella disponibilità dei vaccini ai brevetti, tuttavia, è errato e fuorviante. Intendiamoci: il brevetto può essere usato in modo socialmente responsabile, quindi con ricadute positive su economia e società, oppure – in alcuni settori particolari come quello della sanità – in modo poco attento ai bisogni della collettività. Un uso spregiudicato può però essere contrastato e trova precisi limiti nella legislazione nazionale e internazionale.
Le critiche verso le industrie farmaceutiche sull’accesso ai farmaci, soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo, furono particolarmente acute a fine anni 90, e riguardavano il prezzo elevato dei farmaci per la cura dell’Aids. Alcune grandi industrie che avevano sviluppato il “cocktail” efficace contro l’Aids tentarono di applicare un prezzo di vendita troppo elevato per questi Paesi e i brevetti che li tutelavano impedivano, a chi avrebbe potuto, di produrne i generici.
La “crisi” venne risolta introducendo specifiche deroghe agli accordi sul rispetto internazionale della proprietà intellettuale, cioè gli accordi Trips (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) stipulati tra i Paesi aderenti alla Wto. Questa deroga – nota come Dichiarazione di Doha – stabilì il principio che gli accordi Trips non devono impedire ai Paesi membri della Wto – in caso di emergenze sanitarie – di adottare misure di protezione della salute pubblica e accesso ai farmaci, inclusa la concessione di licenze obbligatorie sui brevetti relativi ai farmaci e alla loro produzione, come pure il diritto di importare le loro versioni generiche ai Paesi che non hanno la capacità di produrli.
Un primo fondamentale strumento di gestione emergenziale è, quindi, la licenza obbligatoria, che il titolare del brevetto è obbligato a concedere a un’altra azienda capace di produrre il prodotto brevettato, quando quel titolare non intende produrlo o importarlo in un dato Stato, o lo fa in misura insufficiente a soddisfarne i bisogni. Ci devono però essere all’interno del Paese le conoscenze, il know-how e la capacità produttiva all’altezza del compito. Va inoltre tenuto presente che, secondo il Codice della Proprietà Industriale (Art. 70.1), l’obbligo a concedere la licenza decorre, però, solo dopo che sono trascorsi 3 anni dalla data di rilascio del brevetto o 4 anni dalla data di deposito, se questo termine scade dopo il precedente.
Casi analoghi si verificano con i protocolli di telecomunicazione, per rendere accessibili a tutti i produttori di smartphone i sistemi 3G, 4G, 5G, Bluetooth, ecc..i cui brevetti vengono concessi in licenza in cambio di royalty ragionevoli.
Tornando ai vaccini anti-Covid, va detto che sono prodotti estremamente sofisticati e complessi che combinano diverse tecnologie, i cui componenti sono stati anche sviluppati da aziende diverse e oggetto di una serie di brevetti diversi (e di domande di brevetto depositate recentemente o ancora pendenti) in capo a soggetti diversi: situazione che può rendere complicato l’accesso ai vaccini con la sola licenza obbligatoria.
Inoltre, aspetti fondamentali della tecnologia sono costituiti da know-how non brevettato e segreto. Sono gli accordi tra le aziende, tra aziende e università, e tra aziende, università e organizzazioni governative, che hanno permesso di realizzare questi vaccini in meno di un anno. Il ricorso alla licenza obbligatoria può, quindi, essere un aspetto, ma non “la” soluzione.
È evidente a tutti, tranne forse agli sprovveduti o a chi è in malafede, che i nuovi farmaci non verrebbero inventati, prodotti e commercializzati se non esistesse la protezione brevettuale. La realizzazione e la commercializzazione di nuovi farmaci richiede elevatissimi investimenti, sia per la ricerca di base che per le prove cliniche essenziali a ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio e la funzione del brevetto è quella di conferire un periodo di sfruttamento esclusivo che serve a coprire gli investimenti e a conseguire il profitto necessario.
L’Italia ha vissuto per molti anni (fino a una famosa sentenza della Corte Costituzionale del 1978) con una legge che vietava la brevettazione dei farmaci. Ciò non ha impedito che esistesse un’industria farmaceutica, ma era sostanzialmente costituita da produttori di farmaci generici, inventati da altri e il cui brevetto era scaduto.
È sconfortante sentire critiche pregiudiziali al sistema brevettuale proprio in Italia, che è stato il Paese che per primo ha avviato una legislazione di premialità per gli inventori, a partire dai brevetti, o “privilegi”, concessi a Galileo Galilei dal doge di Venezia nel 1594 per le sue macchine idrauliche.
È vero che Albert Sabin decise di non richiedere un brevetto per il vaccino orale anti-poliomielite da lui realizzato negli anni 50 negli Stati Uniti. Scelta comprensibile, ma possibile solo in un contesto di finanziamento pubblico della ricerca, come è stato il caso di Sabin, che beneficiò di enormi sovvenzioni dalle università e dal National Institute of Health. Del tutto diverso è il contesto della ricerca applicata condotta e finanziata dalle imprese private. Insomma, non basta l’assenza del brevetto, o la sua disponibilità tramite licenza, per rendere accessibile un vaccino su larga scala. Servono know-how e aziende con un’adeguata capacità e organizzazione produttiva.
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