Valori, sogni, idee. Identikit di una non-generazione, la prossima al potere
Iperattivi e impegnati, anche a trasformare la propria passione in un business di successo. Social, ma molto critici sull'utilizzo di app e network. Abbiamo raccolto otto rappresentanti della Generazione Z a discutere di futuro.
di Alexis Paparo e Camilla Ilaria Colombo
9' di lettura
Sono impegnati (tanto e in tante cose diverse). Iperattivi (hanno pochi spazi liberi e nessuna capacità o volontà di perdere tempo). Si allenano, lavorano, producono per almeno sei ore al giorno; studiano, vanno a scuola o all'università per un altro terzo della loro giornata. Se si contano le ore di sonno, quelle per mangiare e quelle per la socialità, la giornata è finita. Forse per questo molti hanno fatto del loro hobby un business. Rispetto ai Millennials hanno sogni più piccoli, ma molto più concreti, e uno sguardo sul mondo e sui consumi pragmatico. Ma qui si fermano le affinità. E bisogna iniziare a parlare al singolare. Perché non c'è generazione meno generazione dei Centennials, tanto che l'unica definizione in cui si riconoscono (quasi) tutti è “plural”.
In occasione del numero 100 di How to Spend it, abbiamo messo intorno a un tavolo otto rappresentanti della iGen, tutti a vario titolo “fenomeni” nel loro campo. In ordine di età: Arianna Pozzi, classe 2003, imprenditrice tech, con la piattaforma Gaiamyfriend aiuta gli utenti a comporre l'outfit in base allo stato emotivo. Elisa Maino, ancora 2003, circa 10 milioni di follower, TikTok in testa, testimonial moda e beauty, con tre libri all'attivo. Guido Orso Maria Coppin, del 2002, diplomato a 15 anni al Conservatorio Verdi di Milano e oggi pianista e concertista internazionale. Simone Barlaam, nato nel 2000, nuotatore sette volte campione del mondo, otto volte campione europeo. Niccolò Devetag, classe 1995, designer di talento, vincitore dell'Archiproducts Design Award 2021. Giada Zhang, ancora 1995, founder e ceo di Mulan Group, leader nella produzione di piatti cinesi per la grande distribuzione con ingredienti italiani. Esattamente al confine fra generazione Y e Z, classe 1994, Federico Cina, stilista emergente, reduce dal successo della sfilata alla Milano Fashion Week Uomo e Paolo Barretta, fotografo con collaborazioni importanti nel mondo della moda e del tech. Otto storie, origini, esperienze diverse e due soli punti in comune: l'età e lo smartphone. Li abbiamo interrogati su che cosa resterà e che cosa sparirà, che cosa piace e non piace del mondo attuale, sui loro valori e lussi imprescindibili. Ne sono emersi alcuni temi forti e molte idee nuove. Questo è il racconto di una lunga giornata di brainstorming, discussioni e anche molto divertimento, trascorsa insieme.
L'autenticità è tutto
«Una volta, durante un'intervista, hanno chiesto a Pasolini: “Perché lei scrive sempre cose tristi?” Lui ha risposto: “Perché quando sono felice esco”. Mi riconosco molto in queste parole: i momenti di maggiore creatività li ho avuti quando mi sono sentito molto solo nel mondo». È su questa singolarità che il fotografo Paolo Barretta ha investito e costruito. Nel suo passato la partecipazione al talent di Sky Master of Photography, poi I am Winter, il suo progetto Instagram da 100mila follower, un diario personale trasformatosi in cassa di risonanza per un sentire comune. «È importante che il messaggio che comunichi sia vero, completamente tuo». Anagraficamente sul bordo che divide i Centennials dai Millennials, Paolo crede che coltivare la propria diversità sia una chiave intergenerazionale di successo. Anche per le aziende: «Chi cerca solo di cavalcare un'onda momentanea si riconosce subito e non entra in vero contatto». La ricerca della propria identità per trovare una voce autentica è esperienza condivisa anche da Giada Zhang. Ventisei anni, cresce tormentata dalla domanda: “Ti senti più italiana o cinese?”, tanto che, racconta, «cercavo di rendermi il più italiana possibile». I viaggi, e un anno a New York, l'aiutano a comprendere quanto la multiculturalità sia «super cool». Una ricchezza che oggi fa crescere la sua azienda, Mulan Group, secondo l'anticonvenzionale mantra del return on kindness. «Nel mio soggiorno c'è un bellissimo dipinto che rappresenta la muraglia cinese da un lato e il Colosseo dall'altro, con in mezzo la frase: connecting minds. Ho avuto la fortuna di poter scegliere ciò che mi piace di più di entrambe le culture: il sacrificio e l'etica del lavoro, il valore della famiglia, la sensibilità per il bello, la gentilezza, e ricombinarle in qualcosa di mio». Rifugge l'omologazione Federico Cina, Centennial che si sente Boomer, e già a sette anni sapeva di voler fare lo stilista. Ha imparato a cucire con la zia e realizzato il primo manichino con i pezzi di giornale arrotolati sul bastone di una scopa. Ha debuttato all'ultima Fashion Week e guida il suo brand da Cesena, perché «chi l'ha detto che la moda si fa solo a Roma, Firenze, Milano. Per me Cesena è la città creativa per eccellenza. Qui sto bene, trovo la mia ispirazione, ho gli amici e la famiglia».
Guardarsi allo specchio
«Mi raccomando, niente filtri». I brand con cui collabora Elisa Maino, vera star del web, oggi vogliono questo. «Ed è giusto così», ci spiega. «L'idea della perfezione è cambiata, è meglio farsi vedere veri» – “autentici” interviene Federico Cina. Lei annuisce e riprende subito: «Più che sull'immagine è meglio lavorare sulla credibilità, è quella che premia». Ma la privacy che cos'è per un Centennial? Scatta un coro, l'unica risposta unanime al cento per cento: «Non esiste!», «No, proprio non c'è». Dunque la sovraesposizione è la norma e si accetta come un dato di fatto. Qual è allora il rapporto con il proprio fisico? «Il corpo è una vettura, la testa è il pilota e senza quella non vai da nessuna parte. Ci sono momenti in cui il mio corpo non è al top, ma la testa è in un posto bellissimo e allora nulla può fermarmi, il contrario non dà gli stessi risultati». A parlare è il pluricampione Simone Barlaam, oggi anche testimonial di EA7, Emporio Armani. «I social, la tv, le foto, le interviste, i fan: è tutto molto bello, ma è impegnativo. Credo sia importante riconoscere il potere che possono avere se riesci a comunicare messaggi positivi». Uno su tutti: stare lontani da un ideale di perfezione precostituita, far vincere “ciò che è bello per me”. Basta guardare le foto di queste pagine: era stata data a tutti l'indicazione di indossare qualcosa di nero. Ciascuno l'ha declinata alla sua maniera, chi con le perle e le sneakers, chi con una camicia multicolor sotto il dolcevita, chi con un tailleur e stivali con il tacco, chi con una montatura di occhiali importante.
La corsa del presente
Non hanno ancora trent'anni, alcuni neanche venti, eppure sono ossessionati dal tempo che passa. Temono di perderlo, di non riuscire a organizzarlo al meglio. Paolo ha «paura dello scrolling compulsivo sullo smartphone a caccia di contenuti che, paradossalmente, riempiono di vuoto». Arianna racconta «una giornata governata dai calendar slot: non potrei vivere senza, così so sempre cosa devo fare e quando». Guido ricorda «l'ansia dell'agenda vuota durante il primo lockdown». Simone ne ha fatto un record: «Beh, io mi alleno ogni giorno per ridurre il tempo che ci metto a fare una vasca!». E racconta: «Dopo le fatiche di Tokyo, sono stato una settimana in vacanza in Sicilia. Un giorno ero steso sull'amaca, perso nei miei pensieri, e mi sono reso conto che era la prima volta, da non so quanto, che mi concedevo di non fare assolutamente nulla». Paradossalmente solo un professionista dell'attimo come Paolo, tesse l'elogio del perdere tempo: da una parte, l'istante fotografico, ma dall'altra, è importante il vuoto creativo, «saper divagare con intelligenza».
Il futuro: il gioco della torre
Che cosa ci sarà o non ci sarà più fra dieci anni? Alla domanda su come s'immaginano il futuro e loro stessi fra un decennio, segue qualche secondo di silenzio. Forse perché, a persone così immerse nel fare, pensare nei termini di un orizzonte tanto lungo pare un esercizio futile. Rompe l'imbarazzo il pianista Guido Coppin, con un'affermazione che è insieme una provocazione: «Fra dieci anni non ci sarà più il mio pubblico. Saranno tutti morti». Si ride scaramanticamente, ma la risposta è puntuale. Rinverdire il pubblico della classica è uno dei suoi obiettivi, ma per coinvolgere i giovani non bastano YouTube e streaming, «anche se l'ultima finale del premio Chopin è stata vista in diretta da 80mila persone». «Ci vorrebbe un Alessandro Barbero della musica. Con i suoi podcast riesce a rendere coinvolgenti eventi storici che, narrati in modo accademico, non interesserebbero a nessuno». Federico e Niccolò si associano per dire che nel futuro «ci sarà più selezione». Lo stilista emiliano pensa, e spera, che il fast fashion andrà sempre più a scemare, «perché la nostra generazione fa molta più attenzione alla qualità. E per fare un passo avanti va fatto un passo indietro». Niccolò Devetag, che di mestiere fa il designer, parla di «uno sguardo attento verso il passato e la sua reinterpretazione, figlia del bisogno di oggetti di qualità, di competenze, di valori. E una maggiore autocritica del consumatore: “Ogni volta che compri qualcosa, dovresti chiederti: ne ho bisogno?”». Arianna Pozzi, che a 15 anni aveva già fondato la sua piattaforma di moda e si è trovata a coordinare persone di 40/50 anni ed essere il capo di se stessa, interviene per dire la sua: «Il valore è nel pezzo unico, personalizzato, capace di rappresentare solo me, non di darmi quello che hanno tutti».
Spendere smart
«Siamo una generazione smart, ma finanziariamente ignorante». Questa, in poche, semplici battute, è l'opinione di Zhang che fotografa l'intero gruppo. Tutti acquistano tramite carta di credito, raramente in contanti. «Io mi affido alle fintech», continua Zhang con la sua spiccata attitudine imprenditoriale. «A scuola, non ci viene insegnata la gestione del denaro, non si parla mai di soldi, investimenti o fondi. Vent'anni fa era più facile capire come muoversi, una volta entrati nel mondo del lavoro. Oggi c'è una tale sovrainformazione che finiamo per non essere in alcun modo informati». Barlaam concorda: «Il fatto che tutti dicano la propria opinione, su un tema così complesso, non aiuta. Ci si sente travolti e non si sa come orientarsi. Per fortuna io ho un padre che fa il giornalista economico!». Il tema delle criptovalute appassiona poco («Io, seguendo il consiglio dei miei genitori, ho fatto l'investimento più antico del mondo, il mattone. Ho comprato casa a Milano», racconta Maino, proprio lei che vive sui social e lì ha fatto la sua fortuna). Barretta e Cina, grazie alle loro professioni, hanno già avuto esperienze interessanti con gli NFT, mentre la più piccola del gruppo, Arianna Pozzi, si limita a esplicitare un sentimento, che tutti subito condividono: «Quando si tratta di spendere, credo che conti non cosa acquisti, ma che cosa ti dà. Cerchi qualcosa che ti faccia bene, e ultimamente io tendo molto più a orientarmi su un'esperienza, un viaggio ad esempio, anziché sull'ennesimo paio di scarpe di cui ho pieni gli armadi».
Follie, ma non troppo
Il vero lusso? Sentirsi soddisfatti e in pace con se stessi, concordano tutti. «Io non lo sono praticamente mai, sono un perfezionista», ammette Coppin di fronte al sorriso degli altri. Un lusso immateriale e personale, eppure, dietro alle ambizioni più alte, ci sono proprio le conquiste economiche che li hanno resi liberi. «A me il telefono ha cambiato la vita», ricorda con sincerità Maino. «Prima mungevo le mucche in Trentino!». «Quando ho potuto acquistare la mia prima auto senza dover chiedere aiuto ai miei gentori, è stata una tale soddisfazione», ricorda Cina. «Ho comprato due macchine fotografiche, che insieme costano più di quanto mio padre guadagna in tre mesi: non avrei mai creduto di poter fare un passo simile», confessa Barretta. I lockdown hanno aumentato la voglia di spendere e di fare acquisti come terapia per non impazzire: «Io mi sono regalato un basso elettrico per festeggiare la mia laurea a distanza», ricorda Devetag. Gli oggetti per cui fare follie? Pezzi importanti di design, fumetti, graphic novel, art toys e la moda. «Io sono stata a lungo l'incubo di papà», ammette, ridendo la fondatrice di Gaiamyfriend.
La paura più grande
Li spaventa il giudizio, soffrono per la pressione che essi stessi si autoimpongono e per i pregiudizi legati all'età. Fallire è il timore più grande, soprattutto per i più giovani del gruppo. Barlaam, da sportivo, ha una visione lucida: «Le sconfitte bisogna saperle accettare. Si parla sempre delle vittorie, ma sono gli errori che ci fanno migliorare. Però, è vero, viviamo in una società in cui c'è una sovraesposizione e un confronto con gli altri continuo». Gli fa eco Barretta: «La società di oggi rinnega il fallimento, ma non insegna come poterlo evitare», concorda il fotografo. Anche l'accesso a miliardi di informazioni è un'arma a doppio taglio. «Puoi prendere le tue decisioni, ma è come se galleggiassi in un mare di cui non vedi bene l'orizzonte». Dice Devetag: «Rispetto a chi ci ha preceduti, abbiamo molte più opzioni, possiamo scegliere, dire no al compromesso, ma non ci sono binari definiti e questo fa paura. Una volta si sapeva quel che dovevi fare e anche che, in qualche modo, ce l'avresti fatta. Ora sei più libero e più solo». «È tutto un do it yourself superficiale. Vai su YouTube, segui un tutorial e non crei alcun rapporto», concorda Coppin.
Mai senza
Che cosa dunque è importante, quali sono i valori non negoziabili? «La libertà di esprimermi. Al resto posso rinunciare». Le parole di Barretta potrebbero essere il manifesto di questa generazione, a cui ciascuno aggiunge la sua sfumatura personale. «Vivere la persona che è in noi», dice lo stilista. «Includere, non lasciare nessuno indietro». «Il rispetto di sé e degli altri», dice il campione olimpico. «Pari opportunità», rivendica l'imprenditrice cino-italiana. «Nel mio campo sono sempre la più giovane e l'unica donna. In Italia non ci sono modelli femminili di riferimento. È molto semplice: se non puoi vederlo, non puoi pensare di diventarlo. Per questo servono più donne alla guida di aziende, per ispirare tante altre a seguirle». E la sostenibilità, la salute del Pianeta? Nessuno la cita spontaneamente. Alla domanda molti si mostrano diffidenti: «Troppe operazioni di facciata», «sì, greenwashing, va tanto di moda». «Finché c'è capitalismo, e si punta al profitto a breve termine, non c'è sostenibilità», chiosa la fondatrice di Mulan Group. «Siamo la generazione frutto dell'instant gratification», dice mostrando il celulare. «Sì, ma siamo anche la generazione che ha buon senso», la corregge sorridendo Cina, «e sa di dover ripulire gli errori del passato».
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