«Valorizzare le imprese italiane della cultura senza tornare allo statalismo»
di Andrea Biondi
3' di lettura
Sulla collaborazione fra pubblico e privato nel mondo della cultura «non sono stati fatti passi avanti, ma solo dei grandi passi indietro». È durissimo Luigi Abete, presidente di Civita cultura holding e dell’Associazione imprese culturali e creative di Confindustria (Aicc), durante
il suo intervento, in mattinata, nel corso degli Stati Generali per la cultura organizzati
dal Sole 24 Ore.
Lo scontro di vedute con il ministro della Cultura, Dario Franceschini, intervistato solo pochi minuti prima dal direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini, è totale. E Abete di sicuro non le manda a dire, considerando da parte sua sin troppo evidente una tendenza che sta portando il Governo a scivolare, dice il presidente dell’Associazione imprese culturali e creative (Aicc), verso una sorta di statalismo dirigista. Una critica, questa, arrivata ieri da Abete come in altre occasioni da chi vede avanzare incontrastato uno schema della collaborazione fra pubblico e privato in cui il pubblico viene nei fatti considerato il soggetto chiamato a operare, con il privato relegato alla sponsorizzazione.
«Ho sentito il ministro – spiega Abete – dirsi lieto delle donazioni che le imprese fanno, che in qualche misura dovrebbero diventare obbligatorie», per il meccanismo che Franceschini ha ricordato come give back: restituzione di una parte dei vantaggi che l’impresa ha dall’essere italiana e rappresentante del made in Italy nel mondo. «Ho sentito anche dire che la collaborazione fra pubblico e privato può essere solo nelle fondazioni, un soggetto no profit». Tutte cose che fanno dire ad Abete di «essere preoccupato per il futuro che si prospetta».
Nello specifico il presidente dell’Associazione imprese culturali e creative nel suo intervento punta, in particolare, l’indice contro le affermazioni del ministro Franceschini secondo cui «non si fanno utili con i beni culturali» o anche sulla necessità di «lavorare perché il no profit sia all’interno della gestione dei beni culturali». Tutto questo secondo Abete è il chiaro sintomo di «una logica statalista preoccupante». Davanti all’Italia «ci sono l’occasione del Pnrr, lo sviluppo dei borghi, dei nuovi servizi. Ma questo solo se siamo in grado di qualificare da un lato la domanda dei cittadini che vengono in Italia e dall’altro l’offerta». In questo quadro dovrebbe essere evidente a tutti «lo stato dei musei in Italia 30 anni fa, prima che intervenisse la normativa che coinvolgeva i privati nella gestione museale». Il caso è particolare, ma la conclusione è di ordine generale: «Tutti sappiamo che lo Stato deve esercitare un ruolo di indirizzo e controllo, ma non di gestione». Procedure e lungaggini del corpaccione statale rischiano di far perdere tempo prezioso che vuol dire maggiore o minore competitività.
Quanto alla necessità di qualificare meglio il rapporto fra imprese e terzo settore, l’attacco di Abete è altrettanto diretto. «Il ministro – dice presidente dell’Associazione imprese culturali e creative – ha risposto che la differenza sta nel fatto che gli uni fanno gli utili e gli altri no. Ma non è così». Abete si dice così «un grande fautore del terzo settore, ma quando fa il terzo settore e non quando viene usato impropriamente per sostituire lavoratori dipendenti pubblici o privati in modo da sfruttare la situazione di disagio dei volontari». Da qui la conclusione, durissima: «Se non fosse lo Stato, ma se a fare queste scelte fossero altri, relativamente ai lavoratori nelle campagne, si parlerebbe di caporalato. Vogliamo ammettere il caporalato di Stato?».
Di una cosa non c’è dubbio per Abete. «Il mondo ha bisogno di creatività e cultura – dice – e se vogliamo svilupparli occorre una pluralità di attori. Le imprese sono un attore a tutto tondo e con pieno titolo. Se non si faranno crescere le imprese italiane, cresceranno solo quelle internazionali. Che poi verranno in Italia e occuperanno gli spazi lasciati liberi». E purtroppo questa «è un’ovvietà visibile ed evidente a tutti».
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