Vattimo e le frontiere del linguaggio
“Bann”, nuvola impalpabile dei nostri pre-giudizi, pre-concetti in cui siamo “già sempre” immersi senza avvedercene
di Pier Luigi Portaluri
3' di lettura
Mentre traduce il sommo Verità e metodo (Wahrheit und Methode), Vattimo arriva a confrontarsi con una delle parole chiave del libro di Gadamer, forse più densa e fascinosa della celebre precomprensione (Vorveständnis), coniata insieme con un altro grande allievo di Heidegger, il teologo della demitizzazione Rudolf Bultmann.
Questa parola – splendida: puro pensiero poetante – è Bannkreis. Ma Vattimo si limita a volgere con un semplice: «cerchio». Traduce cioè solo Kreis. Ignora Bann.
Strano. Di quella parola composta, Bann è infatti la parte più densa di significato evocativo. Inafferrabile, quasi. Bann è sortilegio e malìa; illusione; incantesimo e magia. Bannkreis in somma è, per Gadamer, la nube leggerissima e sopra tutto inavvertita che ci avvolge quando cerchiamo di comprendere quel che c'è “là fuori”: cioè la realtà esterna, come – ad esempio – può essere qualunque testo/segno da interpretare (artistico, giuridico, religioso, musicale, etc.). E per accrescere il mistero, anche un grande giurista di raffinata formazione filosofica gadameriana, Luigi Mengoni, nella sua teoria generale dell'ermeneutica applicata al diritto adopererà lo stesso lemma corrivamente riduttivo, «cerchio». Pure per lui Bann è come se non esistesse.
Quella nuvola impalpabile sono i nostri pre-giudizi, i pre-concetti in cui siamo “già sempre” immersi senza avvedercene: da cui – dice Gadamer – bisognerebbe saper uscire («Hier fragt es sich genauso, wie man aus dem Bannkreis seiner eigenen Vormeinungen überhaupt herausfinden soll»); o forse – avrebbe poi sostenuto Paul Ricoeur evocando testualmente Heidegger, l'Ultimo Sciamano – in cui occorre saper invece penetrare in modo corretto («Das Entscheidende ist nicht, aus dem Zirkel heraus-, sondern in ihn nach der rechten Weise hineinzukommen»).
Solo a queste condizioni – prosegue Gadamer – l'incontro quasi mistico fra l'interprete e il testo/segno riesce nel realizzare l'inseguita Horizontverschmelzung, la fusione dei due rispettivi orizzonti. Un po' (ma è solo una mia illusione?) come il sospirato e struggente cossirar dei Trovatori, che vorrebbero unire il proprio al cielo dell'Amata, in un abbraccio che avvinca entrambi insieme con tutte le loro costellazioni di significato: l'agognata con/sideratio, appunto.
Ma c'è un rischio immanente, che riporta ancora una volta al Bannkreis, alla nostra sirenica seduzione. Un pericolo insidia quella fusione: essa potrebbe condurre a un risultato insoddisfacente. Lo spiegava molto bene Jean Grondin, immaginifico e fine esegeta gadameriano: «se interpreto il passato a partire dal presente, posso quindi soccombere a quella che si può definire una cattiva “fusione di orizzonti”, nel senso che non sento quello che il testo o l'altro mi sta dicendo, ma solo quello che voglio sentire».
Per la verità, ignoro se i criteri per distinguere una buona da una scadente fusione siano mai stati individuati, e con la precisione necessaria. Continuo però a ritenere sommessamente – rasserenato proprio da Gadamer – che possono esserci fusioni (e interpretazioni) certamente cattive, tali perché rifiutate dal testo da interpretare. Rubo da Eco, mentore di un realismo negativo: «non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta, ma sappiamo con certezza quando non tiene». Splendido l'esempio che lui fa: puoi interpretare in mille e mille modi Finnegans Wake, ma non puoi sostenere che Joyce parli di una ben nota contessa russa che si uccide sotto un treno.
Ora vorrei divagare un po', a causa di una coincidenza abbastanza singolare. La nostra misteriosa parola, Bannkreis, compare in una delle poesie più verticali, più assolute di Paul Celan: Und mit dem Buch aus Tarussa (E con il libro di Tarussa). Qualche verso soltanto, qui: «[…] streunend / im Bannkreis erreichter / Ziele und Stelen und Wiegen» («[…] errando / nel cerchio incantato / di mete e steli e culle raggiunte»). Quasi impossibile spiegarla col linguaggio: parrebbe il vedere ontologico del Poeta (e dell'Europa) fra costellazioni celesti che si specchiano su, e sono esse stesse, luoghi della vita di Celan e della tragedia a mezzo del secolo, nel dodicennio nero tedesco. Celan: l'uomo, pur sradicato dalla sua terra e i cui genitori erano stati inghiottiti dai campi concentrazionari, che il 26 luglio 1967 accetta di incontrare il Maestro di Gadamer. Heidegger però non gli dirà la tanto attesa Parola di Pentimento per la sua lontana compromissione nazista. Celan scrive allora Todtnauberg, l'elegia di quell'incontro così dolente e inutile.
Torno a Vattimo. Sperai di avere da lui una risposta a quella scelta di traduzione, così rinunciante; e infedele, pure. L'ho quindi cercato a lungo. Tramite – è questa infatti la bienséance accademica – i suoi allievi, poiché miei coetanei. Non rispose loro. Differì l'incontro della spiegazione. Forse riteneva che per spiegare la sua decisione si dovesse andare oltre. Troppo oltre la frontiera ultima delle parole.
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