Venezia ’77: al via la Mostra con il bel film di Luchetti
«Lacci», tratto dall’omonimo libro di Domenico Starnone, racconta una storia familiare difficile, ambientata negli anni 80, con ottimi attori
di Cristina Battocletti
3' di lettura
Non c’è l’atmosfera di sempre al Lido. Aleggia qualche cosa di mesto, cauterizzato, trattenuto. Saranno le mascherine e le norme di distanziamento, le transenne, la continua misurazione della temperatura a ricordare il virus che ancora infierisce con feroci colpi di coda e che ha fatto saltare tutti i festival precedenti. M a la 77esima Mostra del cinema di Venezia è riuscita ad aprire i battenti con prudenza e voglia di ripartire, mettendo al centro dell’attenzione il cinema, come arte e come industria.
Per questo, per la prima volta nella storia dei festival, il primo atto formale è stato quello di offrire un incontro inclusivo con i colleghi direttori di altre grandi manifestazioni cinefile, dopo anni di acerrima concorrenza, tra scippi di registi e pellicole e di messaggi nemmeno tanto trasversali di sfida sui giornali.
Il direttore Alberto Barbera aveva accanto, per motivi di rispetto delle norme anti assembramento, solo alcuni degli invitati. C’era Thierry Frémaux, gran cerimoniere di Cannes, con cui fino all’ultimo si è ipotizzato di programmare un festival congiunto, mandato a monte, sembra, dai disperati tentativi dei francesi di riuscire a farcela in luglio, cosa che non si è realizzata. C’erano le direttrici e i direttori di Karlovy Vary, San Sebastian, Locarno, Rotterdam. Tutti concordi nel dire che, se qualcosa di buono ha portato il lockdown, è stata la necessità di parlarsi, solidarizzare, condividere il problema della crisi delle sale cinematografiche, chiuse per il Covid per molti mesi.
E di ribadire quanto il cinema e le sue storie siano stati fondamentali per sopravvivere nel momento della massima durezza del virus. I direttori hanno elaborato un manifesto con cui chiedere supporto e aiuto economico al Governo e all’Unione Europea per registi, attori, sceneggiatori e maestranze, fortemente colpiti dal lockdown.
Si sente quest’anno la mancanza delle grandi major: l’unica star planetaria oggi al Lido era il presidente della giuria del concorso, Cate Blanchett, cui sono state fatte le domande più disparate: da come il marito avesse reagito all’idea che lei venisse in Italia, a come avesse vissuto la situazione tragica del nostro Paese, a considerazioni geopolitiche sulla necessità di un lockdown globalizzato. Lei, diva, bellissima, e soprattutto brava, con tuta zebrata anni Ottanta che solo la sua sublime grazia è in grado di reggere in modo elegante, ha cercato di rispondere con cortesia e intelligenza a qualsiasi questione, quasi come un capo di Stato.
Questa versione della Mostra, vedova di Hollywood, ha permesso un’inaugurazione senza blockbuster, permettendo di mettere in massima luce un bel film, Lacci, di Daniele Luchetti, che avrebbe ben potuto stare in concorso. La materia da cui parte questa storia, ambientata negli anni Ottanta tra Napoli e Roma, è già nobile di per sé, perché attinge dall’omonimo libro di Domenico Starnone (Einaudi, 2016), ben impastato nella sceneggiatura da Francesco Piccolo, il regista e lo stesso Starnone.
L’immagine iniziale è focalizzata su scarpe, corredate o sprovviste di lacci, che si muovono a ritmo di musica in un’atmosfera carnascialesca gioiosa. Ma quando la macchina da presa si ferma sull’espressione dei visi, da subito si capisce che quella di Aldo (Luigi Lo Cascio) è poco aderente al clima festaiolo. La moglie Vanda (Alba Rohrwacher) lo indaga infatti con acutezza e timore. Quando marito e moglie tornano a casa e i due figli vanno a letto, Aldo confessa a Vanda di essere stato con un’altra donna a Roma, dove vive durante la settimana per condurre una trasmissione radiofonica di cultura.
La prima reazione di Vanda è quella di chiedere il motivo di questa confessione. Aldo rimane spiazzato: vuole essere trasparente. Ma Vanda materializza quello che lui non riesce a confessare, ovvero che quel tradimento sarà gravido di conseguenze perché Aldo si è innamorato. Inizia una serie di lucide riflessioni sull’ambiguità dei sentimenti, sulla indefinitezza delle decisioni, sull’incapacità di voler scavare nel proprio io da parte di Aldo; sulla lucida capacità di analisi, conoscenza dell’altro, capacità di ricatto di Vanda. E sul mistero di quello che Luchetti chiama “le forze segrete che ci legano”.
Il film è ben congegnato in una serie di avanti-indietro temporali, che aprono le porte al futuro, in cui agiscono altri due grandi attori, Silvio Orlando (protagonista di un altro film di Luchetti, La scuola, del 1995, tratto da due libri di Starnone, Ex Cattedra e Sottobanco) nei panni di Aldo molti anni dopo e Laura Morante in quelli di Vanda (quest’ultima gioca sull’ambiguità di essere fisicamente più simile a Lidia, Linda Caridi, la donna per cui Aldo aveva perso la testa). Il film rispetta bene, anche se con necessari tagli sulla narrazione letteraria, l’imperativo del “non detto”, dell’intuizione lasciata allo spettatore sul prosieguo della storia. Ottima la recitazione di tutti i protagonisti con epifania finale dei figli ormai cresciuti, Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini.
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