mostra del cinema

Venezia, primo bilancio del festival: vince Joker

L'interpretazione da Oscar di Phoenix, il De Filippo contemporaneo di Martone, il bel «J'accuse» di Polanski. Ma alla Giuria potrebbe piacere lo psichedelico film di Larraín

di Cristina Battocletti

Joaquin Phoenix in «Joker» di Todd Phillips

4' di lettura

Chissà se - dopo “Roma”, “La forma dell’acqua”, “La la land”, “Gravity” - anche quest’anno a Venezia riuscirà la magia di spianare la strada verso gli Oscar a qualche candidato.

Sicuramente il trucco potrebbe funzionare per “Joker” di Todd Phillips grazie a Joaquin Phoenix, che ha dimostrato di saper giocare il dolore su infinite tonalità e tutte maledettamente vere, dal ragazzo allo sbando cooptato da Scientology in “The master” (2012) di Paul Thomas Anderson all’alienazione postumana di “Lei” (2013) di Spike Jonze.

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Phoenix ha iniettato nel più celebre clown psicopatico dei fumetti, troppe volte maschera frusta in versioni di serie b, la sofferenza pura di Arthur Fleck, stand-up comedian per aspirazione, pagliaccio on demand nella realtà, buono per segnalare i saldi di un negozio in fallimento, o a far ridere i bimbi malati all’ospedale. Il film di Phillips racconta una storia di emarginazione più che plausibile, aggravata dall’assenza di paracadute sociali. E Gotham city, la città di Batman, è trasformata nello specchio di una delle tante piazze, da Atene a Parigi, in cui in questi anni si è riversata la tensione con cassonetti bruciati e risse con la polizia.

Il fuoco c’è anche in “Ema” di Pablo Larraín, acceso da un lanciafiamme azionato da una ragazza biondo cenere, Ema (Mariana Di Girolamo), artefice di complicate architetture emotive. Un bambino adottato e poi restituito, una coppia che si tortura, una compagnia di ballo d’avanguardia, sono le tesserine di un puzzle che potrebbe molto piacere alla presidente di Giuria, Lucrecia Martel. “Ema” è un film solo apparentemente sconnesso e disassato, perché sottesa vi è una struttura composita, che batte al ritmo psichedelico del reggaeton e dei bassi esasperati, su cui si muovono a scatti un gruppo di ragazzi di Valparaíso. Diversi spettatori, fiaccati da pletore di orge e rapporti sessuali, hanno abbandonato la presa. Ma solo alla fine si capisce che il film ha una sua coerenza, un linguaggio tutt’altro che irrazionale. Larrain è un grande narratore per immagini e lo ha dimostrato toccando tutti i generi, dall’hollywodiano “Jackie” (2016) all’iperlatinoamericano “Post mortem” (2010), dal biografico “Neruda” (2016) allo scabroso ai limiti della sopportabilità “El club” (2015). Ma in Ema non c’è l’urgenza di Toni Manero (2008), la disperazione è fredda, cerebrale. Però le sue atmosfere sono vicine a quelle della presidente argentina.

Un’altra pellicola che potrebbe finire nel palmares è “La candidata ideale” di Haifaa al-Mansour, prima regista donna dell’Arabia Saudita. Probabilmente questo primato è stato determinante per instradare la pellicola nel concorso, perché il film ha una natura un po’ semplicistica e televisiva. Ma ha la grazia e lo humor dei perdenti, su cui si poggia una giovane dottoressa, Maryam (Mila Al Zahrani), per contrastare la misoginia dei suoi pazienti e che la spingerà ad accettare una candidatura alle elezioni municipali.

Forse è nata per essere spezzata in due episodi televisivi (non a caso uno dei produttori è Netflix) “Storia di un matrimonio” di Noah Baumbach, la cui sceneggiatura, scritta dallo stesso regista (con l’aiuto ufficioso della compagna Greta Gerwig), è una lettura, comica e tragica, di rara intelligenza, di ciò che accade a una coppia con prole quando l’amore si sgretola. Lui è Adam Driver, drammaturgo d’avanguardia, lei è Scarlett Johansson, attrice schiacciata dall’egocentrismo di lui e trascinata nell’agone legale da una diavolessa di avvocato (strepitosa Laura Dern). Un velo di pietà si stende su tutto e su tutti rimane impresso il calco di ciò che è stato, nel bene e nel male. Le grandi prove attoriali e l’esordio canoro di Adam Driver (con sala in visibilio) hanno fatto impallidire lo sforzo di Brad Pitt di interiorizzare in orbita un legame irrisolto tra un figlio e un padre scomparso in una missione spaziale.

“Ad astra” di James Gray, infatti, si svolge tra la Luna e Marte, altitudini in cui l’astronauta Roy infrangerà la parte algida e controllata di se stesso per scoprire fragilità e per preoccuparsi del destino della terra. I film brutti sono altri, ma forse ci sono troppi temi sul piatto, con una strizzatina d’occhio a Kubrick, Tarkovskij e Malick.

Un doloroso legame genitorial-filiale è anche la chiave de “La verità” di Kore-eda Hirokazu, per la prima volta in interni europei e borghesi. Sarà per quello che la pur bella sceneggiatura, tratta da una pièce teatrale, non ha la forza delle precedenti. L’ironia sottile, lo sguardo morbido ma implacabile sono il pepe di una resa dei conti tra una figlia (Juliette Binoche) e la madre (Catherine Deneuve), attrice sul viale del tramonto. Il meccanismo a orologio del pluripremiato regista giapponese svela a poco a poco segreti e bugie, da cui emerge un legame più forte di quanto entrambe volessero.

Mario Martone, primo degli italiani in gara, ha contemporaneizzato “Il sindaco del rione sanità” di Eduardo De Filippo (applausi appena il nome compare sullo schermo). Sarà anche vero che la sceneggiatura è un capolavoro, ma i piccoli cambiamenti apportati dal regista napoletano e la recitazione dei protagonisti, da Francesco Di Leva a Massimiliano Gallo, la rendono una storia vivida. Chapeau.

Infine è passato Polanski che non tradisce mai. È bellissimo il suo “J’accuse” sul caso Dreyfus, il più noto scandalo di ingiustizia del XIX secolo francese, in cui un capitano ebreo venne condannato per alto tradimento secondo un’accusa poi rivelatasi falsa. Le larghe spalle di Jean Dujardin (quello di The artist), hanno retto il ruolo dell’ufficiale Picquart, il grimaldello della verità. Il regista franco polacco ci mette in guardia sul pericolo sempre attuale dell’antisemitismo e offre il suo manifesto contro l’ingiustizia, mettendosi nel pentolone dei perseguitati. Sicuramente Martel non è d’accordo. Dura che si porti a casa dei premi, salvo che la presidente non voglia dimostrare di essere super partes.
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