ricorsi & ricordi

Venezia, lo stesso molo maledetto della strage dimenticata

di Jacopo Giliberto

Perché Venezia è nella morsa delle grandi navi da crociera

3' di lettura

La gente di mare e di nave fiuta nell’aria dettagli che sfuggono a quelli di terra, e che quelli di terra pensano che siano superstizioni.
Cent’anni fa esatti, nello stesso maledetto luogo esatto di domenica — erano le 7,50 della mattina di giovedì 27 marzo 1919, giorno dedicato a sant’Augusta — il piroscafo San Spiridione esplose alla banchina di San Basilio a Venezia. Poi in fiamme, l’elica e il timone rivolti verso il cielo, la nave andò alla deriva nel canale della Giudecca.

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Non si sa quante persone morirono. Forse 161, forse 165, forse 200. Di sicuro, è il peggiore incidente mai avvenuto in tempo di pace in un porto italiano, peggio di quel terribile 10 aprile 1991 quando 140 persone morirono sul traghetto Moby Prince dopo la collisione contro la petroliera Agip Abruzzo in rada a Livorno.

La tragedia collettiva di cent’anni fa alla stessa banchina maledetta di San Basilio a Venezia è una strage dimenticata perché fu cancellata dalla censura militare di un secolo fa.
Che cosa caricava quel piroscafo, oltre a duecento militari diretti a Pola e forse alla contesa Fiume non ancora dannunziana? Segreto.
Qual era la sua missione? Segreto.

La banchina di San Basilio è la stessa alla quale domenica mattina era ormeggiata la River Countess, nave per crociere fluviali di lusso contro la quale è arrivata senza controllo la Msc Opera.

Il racconto della strage
Uso i verbi al presente storico, come se descrivessi un evento di oggi.
La prima guerra mondiale è finita da pochi mesi, è finita in novembre.
Venezia è una città piena di fabbriche.
Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1919 il piccolo mercantile San Spiridione ha fatto il carico all’ormeggio di San Basilio, davanti alle rovine del cotonificio che l’altr’anno è stato bombardato e incendiato dagli austriaci e poco discosto dallo Stabilimento Frigoriferi.
(Nel giugno 2019 il Cotonificio e Frigoriferi sono sede dell’istituto di architettura Iuav).

Il vapore stazza 350 tonnellate, una piccola motonave come quelle che fanno servizio di navigazione sui laghi di Como e Maggiore; è della società Oceania di Trieste; è stato preso a nolo dalla Regia Marina per svolgere alcuni servizi militari.
San Spiridione cui la nave è dedicata è il patrono di Corfù, dove si custodiscono le reliquie, ma è venerato anche a Trieste.
In stiva sono stati caricati fusti di lubrificante per motori, taniche di benzina, botti di marsala, e poi altri materiali non dichiarati dalle autorità militari.
Salgono anche 9 civili e circa 200 militari, fra i quali 21 arditi di marina con il loro capitano.
Il piroscafo deve partire per Pola, in Istria, e poi pare che dovrà proseguire per Fiume occupata dai francesi, contesa dai granatieri italiani e non ancora italianizzata dai legionari di Gabriele D’Annunzio.
Sul canale della Giudecca c’è foschia greve. I 200 passeggeri sono fuori sulla coperta, chi seduto, chi in piedi, chi fuma.
Il comandante Policovich, il pilota di porto e i 16 marinai dell’equipaggio fanno le manovre: libero a prora, libero a poppa, avanti piano, mezzo avanti.
Appena staccata dalla banchina maledetta, mentre sfila davanti allo Stabilimento Frigoriferi, la nave esplode.
Centinaia di finestre scoppiano in frantumi.

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Corpi o loro parti cadono sui tetti delle case o in mezzo al canale. Vengono uccise anche persone mentre camminano sulla banchina.
Il canale della Giudecca si copre di benzina, l’acqua in fiamme avvolge e brucia vivo chi è stato gettato in canale.
Fino a metà del pomeriggio della nave si vede fuori dall’acqua solamente la poppa avvolta dal fuoco, mentre la prora è affondata.
Si stimano prima 50 morti. Poi 60. Poi 161 morti, no diventano 165, senza contare i dispersi.
I pompieri cercano resti sulle barene della laguna. Non si trova nemmeno la salma del comandante Policovich.

Dimenticare e ricordare
I verbi tornano dal presente storico al passato remoto.
La stima fu quasi 200 morti. Ma si parla di stima, perché di molti non si trovarono nemmeno più i bottoni.
Dopo qualche breve articolo di cronaca (sul Gazzettino del 28 marzo, sulla Stampa) il silenzio militare velò la tragedia del molo maledetto.
Non fu posata nemmeno una lapide per ricordare. Ma i luoghi ricordano, e la gente di mare e di nave fiuta nell’aria dettagli che sfuggono a quelli di terra, e che quelli di terra chiamano superstizioni.

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