Vento di Caprera, isola-compendio e un eroe sobrio
Memoria di una gita, tanti anni fa, a sentire i profumi del luogo nel quale il condottiero si rifugiò in vecchiaia e vedere il mare che anche lui aveva visto. Poi, il sarcofago di pietra
di Marcello Fois
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Cos’era esattamente Caprera per me a sette anni? E Giuseppe Garibaldi? Un’isola piccola fuori da un’isola grande che si raggiungeva attraverso un’isola intermedia. Di Garibaldi sapevo che la sua immagine campeggiava nella copertina dell’album del Risorgimento Panini, e anche nelle bustine delle figurine. Nel tempo scoprii che aveva generato un pensiero, una geografia, un senso.
L’idea che la difformità non fosse abbastanza per rinunciare a un’idea di Nazione; uno spazio fisico che, estendendosi dalla punta della Calabria all’arco delle Alpi come un colossale molo nel Mediterraneo, comprendesse anche una serie di terre come imbarcazioni grandi e piccole che gli gravitassero attorno: Sicilia, Sardegna, Elba, San Nicola, Ponza, Ventotene, Ischia, Caprera, e così via; infine un senso di Patria che poteva derivare solo dal paradosso di trovare una sintesi nelle diversità. Ma non corriamo, queste sono competenze da adulti istruiti; a sette anni, quando mio padre annunciò che la mattina dopo di buon’ora ci saremmo messi in macchina per raggiungere Caprera e visitare la casa di Garibaldi, io scossi la testa e sospirai. Soffrivo drammaticamente il mal d’auto e mio padre ci aveva avvisato che sarebbero state quattro ore di viaggio. Le strade sarde erano quelle che erano, si viaggiava attraverso le coste e la 131, oggi frutto di cavalcavia e gallerie, era un moncone che si dipanava sostanzialmente nei territori pianeggianti o nelle valli. Caprera dunque significò sveglia alle cinque e trenta e curve su curve. Un viaggio che, tuttavia, permetteva di sperimentare un rovesciamento, perché in questo caso la terraferma, il continente, eravamo noi.
Segno che ognuno può essere isola o terraferma a seconda del punto di vista, o del significato che dà al suo muoversi. Eccoci qui, tutta la famiglia in macchina ad affrontare i tornanti dell’isola grande per raggiungere l’isola piccola. E per raggiungere il luogo che l’eroe dei due mondi aveva scelto come sua terra d’elezione. Ma che significava poi “eroe dei due mondi”? Che c’era un altro globo oltre al nostro? Che la spedizione dei Mille era stato un viaggio spaziale? Il nostro eroe barbuto era il Capitano Nemo sotto mentite spoglie?
Il generale
O piuttosto il contrario? Il generale Garibaldi era l’eroe degli eroi. E abitava in Sardegna. E questo valeva il viaggio, quasi un pellegrinaggio, verso la sua casa. Quel tratto di strada lungo la costa tirrenica dalla Barbagia alla Gallura attraverso la Baronia offre un paesaggio sconcertante, che non è solo visivo, ma anche olfattivo. Siamo un po’ spaesati dal piccolo braccio di mare che da Palau ci ha portato a La Maddalena, dal traghetto compatto e arrugginito su cui ci siamo imbarcati, dal porticciolo che ci ha accolto proprio come se ogni porzione di mare giustificasse un altrove. E l’altrove è ancora un’isola, uno spazio intermedio attraverso il quale possiamo arrivare a destinazione. Isole su isole come scatole cinesi, Sardegna, La Maddalena, Caprera.
L’isola più piccola che imita quella più grande e ne concentra le caratteristiche, ne specifica la genetica. Unite da un cordone ombelicale che non è niente di più che una carrozzabile in mezzo al mare. Entrare a Caprera è come entrare nell’officina di uno speziale dove tutti gli aromi si accumulano e si mischiano e insegnano al nostro naso l’arte di selezionare: la macchia mediterranea profuma di unguenti balsamici, il mare profuma di aria salsa, la sabbia profuma di roccia e la roccia di vento. I pini filtrano le correnti, i quercioli asciugano l’aria come se fossero spugne, i gigli di mare fioriscono carnosi tra le spiagge e le pinete.
Regna dovunque una pace straordinaria di ritmi e suoni: gabbiani gentili che planano, famiglie di cormorani che si asciugano le ali spalancandole al vento, piccole tortore pacifiche che tubano fra i rami più alti, cinghiali magri e scuri, capre sagge e temerarie. Intorno, tutto insieme, il respiro della battigia. Spiagge, scogliere, ma anche un’esperienza d’altura in un acrocoro di rocce che imita un cuore montuoso. E, come nell’isola madre, con pochi passi in salita si raggiunge una spianata sopraelevata che ospita quello che tutti chiamano Compendio Garibaldino. Si tratta di un gruppo di case semplici, bianchissime, non troppo diverse da quelle che io a sette anni avrei potuto immaginare. Mio padre me le mostra, vuole che io mi senta investito di quella strana atmosfera che questi luoghi impregnati di storia trasmettono. Prima di visitare gli interni vuole che esploriamo i dintorni. Mia madre non ha le scarpe adatte e ci aspetta insieme ad altri visitatori accaldati all’ombra del grande pino che si sviluppa nel cortile antistante la prima porzione della casa. Io seguo mio padre che mi invita a guardare dove lui guarda. È mare, certo, chiarisce, ma non un mare qualunque: è il mare che guardava Garibaldi. Mi invita a badare a dove metto i piedi e non solo perché ha paura che cada e mi faccia male, ma perché vuole che mi muova con la coscienza che quello è lo stesso terreno calpestato dal Generale. Devo aver preso da lui la tendenza all’enfasi, la passione per i riti. L’idea che un tempo si sovrappone all’altro. Camminare dove aveva camminato Garibaldi ci portò dentro la casa. Che mi sembrò bellissima, come sembrano belle tutte le case che devono rappresentare e non essere abitate. Provai a immaginarlo tra quelle stanze il nostro eroe, con indosso il suo poncho, disteso su quel letto incredibilmente piccolo che, quando sentì avvicinarsi la fine, chiese che fosse orientato verso la finestra che dava sul mare.
Strane sorprese
La misura della Storia spesso riserva strane sorprese. Fuori la giornata era torrida, ma dentro la casa regnava una frescura docile di pavimenti lucidati e vetrine spolverate. Come se una genia di governanti si fosse consegnata il compito di tenere lindo ogni spazio come voleva il Generale, che non amava lo sfarzo, ma non transigeva sulla pulizia.
Lui che aveva dormito all’addiaccio, che aveva visto morire la sua amata Anita nelle paludi di Comacchio, che si era sistemato su una stuoia nella povera casa di Meucci e aveva affrontato tempeste oceaniche in un veliero partito dal Perù. In quella casa decorosa, nei suoi oggetti ordinari, c’era un’energia straordinaria, perché gli eroi, quelli immensi e proverbiali, sanno rendere straordinario l’ordinario.
Per lui erano state incise lapidi in ogni angolo del Paese. Per lui e per il suo cavallo, perché campeggiassero nel fior fiore delle piazze d’Italia, venne fuso più bronzo che per mille campane e altrettanti cannoni. E dicevano che per i paradossi della Storia Garibaldi avrebbe potuto nascere francese, e l’altro Generale, il Bonaparte, italiano.
Ora visitavo le stanze che lui stesso aveva scelto di abitare e non per esiliarsi, ma per scegliere un centro in cui far convergere le menti più straordinarie del suo tempo, un luogo che lo rappresentasse per spessore e concentrazione. Poco distante, in un piccolo cimitero, la sua tomba spiccava per sobrietà, ma anche per magnificenza: un sarcofago di roccia come uno scrigno al grezzo, il non finito di uno scalpellino che abbia considerato male i tempi, perché pareva impossibile che l’eroe dei due mondi fosse mortale. C’era un anello di metallo attraverso il quale un ciclope emergendo da quel mare omerico avrebbe potuto sollevare quel coperchio di roccia viva nel giorno del risveglio.
Quel posto lo chiamavano “compendio”, come se volesse rappresentare il luogo in cui i princìpi appaiono per quel che sono: sobrietà, sincerità, solidarietà, etica. Vorrei tornarci dopo tanti anni, con mio figlio.
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