La riforma dell’architettura fiscale europea

Verso un Patto di stabilità in continuità con i piani di rilancio post pandemia

di Fiorella Kostoris

5' di lettura

Mercoledì sono state pubblicate le nuove Linee guida europee in materia fiscale per il 2023, illustranti 5 princìpi che in futuro la Commissione seguirà nel valutare i Programmi di stabilità e convergenza degli Stati membri, i quali dunque a essi dovranno ispirarsi:

1 assicurare il coordinamento con un appropriato bilanciamento fra misure di sostenibilità e di stabilizzazione;

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2 garantire la sostenibilità del debito con un aggiustamento fiscale graduale di alta qualità e con lo sviluppo economico;

3 promuovere l’investimento e lo sviluppo sostenibile;

4 predisporre manovre di bilancio coerenti con un approccio di medio termine, compatibili con i piani di ripresa e resilienza;

5 differenziare le strategie fiscali nazionali, in particolare fra Paesi molto e poco indebitati, tenendo in considerazione gli spillover all’interno dell’Ue.

Il Patto di stabilità e crescita (Psc), nato nel 1997, più volte modificato negli anni e disattivato con la clausola di salvaguardia nel 2020, sarà dunque probabilmente reintrodotto, ma cambiato
nel 2023.

Le critiche mosse da più parti al Psc sono talmente tante, e talora fra loro contradditorie, che è impossibile sintetizzarle.

Le più convincenti sembrano tre, centrate sulla parziale inefficacia del Psc a ottenere ex post gli scopi che ex ante si era prefissato: in primis conseguire la stabilità dei debiti pubblici, per evitare spillover negativi da parte di Stati membri spendaccioni che non ne pagherebbero pienamente le conseguenze all’interno di un’area monetaria unica; inoltre – a partire dalla prima riforma del Psc nel 2005, poi rafforzata in quelle del 2011, 2013 e 2015 – utilizzare la politica fiscale per favorire la stabilizzazione del ciclo economico e per promuovere la crescita, sottolineando che lo sforzo nel percorso di aggiustamento all’obiettivo di medio termine della finanza pubblica di ogni partner europeo, da un lato, dovrebbe essere maggiore in good times che in bad times, dall’altro lato, potrebbe subire modifiche o scostamenti in ragione di significative riforme strutturali, mentre già secondo il Trattato (art. 126 Tfue) bisogna tener conto «anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti».

L’enunciazione di questi difetti del Psc, del resto evidenziati dalla stessa Commissione europea in un eccellente documento uscito qualche giorno prima dello scoppio della pandemia – Swd(2020) 210 final del 5 febbraio di due anni fa – è stata chiaramente ribadita in una lettera al quotidiano «la Repubblica» il 20 ottobre 2021 dal vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis e dal commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni: «Il debito è rimasto ostinatamente alto in alcuni Paesi; le politiche di bilancio sono rimaste procicliche e l’aggiustamento è stato spesso ottenuto tagliando gli investimenti pubblici».

Accanto alle critiche, i commentatori più qualificati esprimono varie idee per una riforma del Psc, da reintrodurre, modificato, presumibilmente nel 2023. Anche in questo caso, la numerosità delle proposte non consente di fornirne un rapido sommario.

C’è però ormai un quasi generale consenso fra gli esperti a ridefinire lo strumento di politica fiscale da utilizzare principalmente in vista dell’aggiustamento nel debito e deficit pubblici da parte dei policy maker nazionali e nel corrispondente monitoraggio da parte dei vertici europei (si vedano per esempio gli interventi di Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller, dicembre 2021 e dello European fiscal board, ottobre 2020): si tratterebbe di una regola sulla spesa pubblica primaria (cioè depurata dagli interessi sul debito pubblico), ulteriormente nettata da fattori ciclici, da componenti di investimento e da altre voci, diversamente specificate da autori differenti.

Il vantaggio di questo target rispetto a quelli precedentemente preferiti sarebbe quadruplice:

1 esso sarebbe più trasparente in quanto si baserebbe su dati osservabili, dunque più facilmente accertabili da tutti gli stakeholder e perciò percepito come più oggettivo di quello attuale, richiedente stime considerate parzialmente arbitrarie dell’output gap;

2 si focalizzerebbe maggiormente su variabili effettivamente sotto il controllo degli odierni responsabili della politica di bilancio di ogni Stato membro, mentre gli interessi sul debito pubblico non lo sono, poiché dipendono dalle gestioni passate della finanza pubblica nazionale
e dalla politica monetaria presente, che però è decisa altrove;

3 sarebbe per costruzione meno soggetto a variazioni procicliche, soprattutto se si evitasse di stabilire la dinamica della spesa pubblica primaria netta in ragione, sia pure meno che proporzionale, di quella del Pil, perché in questa evenienza si manifesterebbero un non intenzionale incremento della parte intesa come aciclica delle uscite pubbliche in fase di espansione e un decremento in fase di contrazione del reddito (distorsione, questa, frequentemente riscontrata nelle proposte degli esperti, come illustrato da Belu Manescu e Bova, aprile 2020, da cui invece è esente la Commissione europea perché il suo benchmark nella spesa pubblica primaria netta, introdotto a partire dal Six-Pack del 2011, varia in funzione del prodotto potenziale);

4 infine, quel target migliorerebbe la qualità e la produttività dell’intervento pubblico nell’economia, dal momento che il suo controllo lascerebbe libera da vincoli l’accumulazione in capitale materiale e, in certe interpretazioni, perfino in quello umano (per esempio in Giavazzi et al cit), secondo un approccio da golden rule.

Per concludere, preme aggiungere che tale target di policy – sebbene concordato a livello europeo, Paese per Paese, su un lasso temporale medio-lungo – dovrebbe esser verificato annualmente anche per tener conto di eventuali shock intervenuti, soprattutto se asimmetrici, avendo riguardo alla loro tipologia e distinguendo quelli prevalentemente da offerta da quelli prevalentemente da domanda. A fronte di uno shock avverso del primo genere – quando si assiste (come adesso in Italia) a un livello di disoccupazione ancora notevole, combinato con strozzature nella catena del valore, molti posti vacanti e mismatch nel mercato del lavoro, forti rincari nel comparto energetico e alimentare, inflazione al rialzo – sarebbe opportuno ridurre drasticamente la spesa pubblica primaria al netto dei fattori ciclici e dell’accumulazione di capitale, al fine di dare in modo selettivo il massimo spazio agli investimenti, alle riforme, all’upskilling e reskilling dei lavoratori oltre che al loro sostegno, alla detassazione delle imprese e dei settori più colpiti da rincari dei prezzi. Nel caso invece di uno shock negativo da domanda, dove le tendenze deflazionistiche si accompagnano a una persistente o crescente disoccupazione, si potrebbero al contrario espandere tutte le uscite pubbliche in funzione anticiclica, incluso il nuovo aggregato proposto come target.

Poiché questo esplicitamente adotta la golden rule, la nuova edizione del Psc, se lo incorporasse dall’anno prossimo, non permetterebbe più in futuro alla Commissione europea di evitare una chiara valutazione qualitativa sul supply e sul demand management, conseguenti all’analisi sulla natura degli shock, come invece ha fatto sistematicamente in passato, sostenendo che il giudizio sulla composizione della finanza pubblica di ogni Stato membro, ancorché presente nelle Raccomandazioni specifiche all’interno del Semestre europeo, è estraneo alla logica del Patto.

D’altra parte una nuova logica del Psc sarebbe molto più in continuità con le innovative forme di coordinamento dall’alto realizzate dal 2021 nella Ue attraverso il Next Generation Eu (Ngeu), fondato, com’è, sulla condizionalità dei prestiti europei ai partner che vi ricorrono, in termini di produttività della spesa pubblica, investimenti, riforme, scadenze, e sulla generosità di tutti sia per i sostegni offerti a fondo perduto, senza contropartite, sia per il debito emesso, di fatto comune.

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