Vestivamo alla moda dei Lumi
Fino al 29 maggio a Palazzo Morando la retrospettiva «Settecento!» che ruota attorno a tre abiti delle dame Nodari acquistati dall’Associazione AMICHAE. Pezzi unici mai modificati che raccontano anche la storia delle manifatture che producevano tessuti, abiti e accessori, arricchendo i territori in cui erano attive
di Ada Masoero
I punti chiave
- Esposti tre abiti realizzati tra il 1775 e il 1780 da una sartoria del Nord Est dell’Italia
- Creazioni opulente, arricchite da decori raffinati e ben conservate
- Nell’ultima parte della mostra gli omaggi contemporanei alla moda Settecentesca
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Hanno attraversato i secoli (due e mezzo, per l’esattezza) riparati in un massiccio armadio di noce, uscendone solo un giorno l’anno, in estate, per essere arieggiati in un angolo ombroso del giardino dell’antica casa gardesana in cui sono rimasti fino all’anno scorso. E dove erano arrivati, per vie ereditarie, dalla famiglia Nodari di Castiglione delle Stiviere. Ora, quei tre abiti sontuosi dell’Età dei Lumi, acquistati dall’Associazione AMICHAE per essere donati a Palazzo Morando|Costume Moda Immagine, sono diventati il nucleo generatore della mostra curata da Enrica Morini e Margherita Rosina, con Ilaria De Palma, conservatore del museo.
Le mise delle dame Nodari
Esposti nelle nuove vetrine museali, che garantiscono la conservazione di questi fragili manufatti, i tre abiti raccontano molte storie. Innanzitutto quella, privata, delle due dame Nodari, di generazioni e corporatura differenti, che se li fecero confezionare regnante Maria Teresa d’Austria: delle due, una (snella e giovane, a giudicare anche dai gusti aggiornati alla più sobria moda “all’inglese”) prediligeva il colore bordeaux. Per lei fu confezionato il completo di lampasso di seta broccato con un motivo a meandro, composto di tre pezzi: una gonna concepita per dare risalto alla parte posteriore («Point de ventre & beaucoup de cul», recitava un manuale sartoriale del 1785), un corpetto dall’ampia scollatura, strizzato da lacci e armato di stecche di balena, e un giacchino, anch’esso ampiamente scollato e con una vezzosa baschina, che poteva essere alternato al primo, ottenendo così due diverse toilette, di tono più o meno formale.
A realizzarli con grande maestria, tra il 1775 e il 1780, fu una sartoria del Nord Est dell’Italia, com’è provato dalle scritte dialettali, «manega drita» e «manega cenistra», che figurano all’interno delle maniche (di lunghezze diverse: chissà perché) del corpetto. Dalla stessa area doveva provenire il non meno ammiccante corpetto - questo è giunto a noi privo di gonna - che fu confezionato con una raffinata seta a piccoli disegni di gusto inglese tessuta dalla manifattura Marasca di Vicenza, come hanno scoperto le curatrici, scovandone un frammento in un antico campionario dell’azienda conservato nel Museo Civico vicentino di Palazzo Chiericati.
Dell’altra dama, ben più robusta e di gusti più teatrali (propri della generazione precedente), è giunta un’opulenta “robe à la française” (in Italia si chiamava “andrienne”) del 1770 circa, formata da una sopravveste e da una mezza gonna confezionate con una seta di un verde squillante dall’elaborato decoro, cui fu aggiunta una gran quantità di minuscole nappine di passamaneria a forma di corolla, a rivestire il corpetto e parte delle maniche, e ad arricchire ulteriormente la gonna. Tutti e tre gli abiti esibiscono uno stato di conservazione perfetto, come se non fossero mai stati indossati e - fatto molto raro per questi vestiti che, costosi com’erano, venivano spesso rimaneggiati - sono privi di ogni modifica, oltreché in perfetto stato di conservazione.
Gli abiti raccontano la storia delle manifatture
Ma queste vesti, così come i meravigliosi e allora costosissimi merletti, delle collezioni del museo, esposti con essi perché allora completavano necessariamente («per ben figurare nel mondo») ogni toilette, raccontano anche una storia economica: quella delle manifatture che producevano tessuti, abiti e accessori, arricchendo i territori in cui erano attive (la Francia per le stoffe e i ricami, le Fiandre e Burano per i loro merletti «di primo rango», e così via) e facendo circolare in Europa le tecniche e i motivi decorativi più fortunati dell’industria del lusso. Mentre generavano un immaginario di «onirica opulenza», che sarebbe riaffiorato regolarmente nei secoli successivi: come lo stile Marie-Antoinette, rimesso in voga nel secondo ’800, nell’abbigliamento e nell’arredamento, dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, o i costumi settecenteschi per i balli in maschera, le pièce teatrali e i film in costume dei decenni a venire o, ancora, il revival del rococò nel décor delle case borghesi negli anni 50 del ’900. Fino a oggi.
Come dimostra la sezione finale della mostra, affidata a Matteo Augello, in cui sfilano abiti di Dolce&Gabbana, Gianfranco Ferré, Versace, Vivienne Westwood, Max Mara, che nelle fogge o nei tessuti (come la “toile de Jouy”, decorata con scene pastorali) hanno reso omaggio a quella moda sfavillante e lussuosa.
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