Vinicio Capossela: ballate animalesche e medievali rimedio contro la peste digitale
Cantautore e scrittore raffinato, con il nuovo disco ha già vinto il Premio Tenco e, in due memorabili notti di luna in Sardegna, tre lumache e lupi, spiega come è arrivato a un lavoro così profondo
di Stefano Salis
7' di lettura
Mentre si leva la luna, in una notte di fine luglio, proprio di fronte a noi che conversiamo pubblicamente nel canto dei grilli e nell’aria tersa, a me viene da pensare da quale pianeta, invece, ci sia piovuto - e cosa abbiamo fatto per meritarci, in Italia - questo artista che ho a fianco, che dire “cantautore” è sminuente allo stesso modo che affermare che Picasso ci sapeva fare con il pennello.
Siamo all’esterno del museo archeologico del mio paese di origine, Sant’Antioco, Sud Ovest della Sardegna, dove l’indomani si esibirà nella cosiddetta Arena Fenicia, umidità, erba e rocce millenarie come quinta.
Vinicio Capossela sta parlando, apparentemente, del suo ultimo lavoro, «Ballate per uomini e bestie», con il quale ha già vinto il Premio Tenco per il miglior disco. Gli verrà consegnato ad ottobre, e non è il primo: anzi, da «Canzoni a manovella» (2000) in poi, ogni volta che pubblica un disco non antologico si aggiudica il premio. Come dire: manifesta superiorità.
Sono oltre vent’anni che lo ammiro, e lo seguo: concerti nei luoghi più disparati, miniere e spiagge, teatri e aule, e poi reading, performance teatrali, presentazioni di libri: posso testimoniare in prima persona quanto sia cambiato, cresciuto, abbia preso consapevolezza del suo smisurato talento, che spesso sconfina nel genio puro, e di come abbia forse imparato, in questi anni, se non a dominarlo, insieme alla sua inquietudine, almeno ad assecondarne la multiforme varietà.
Sarò un fan, lo ammetto, eppure sono in buona compagnia se un esimio signornò della cultura italiana come Goffredo Fofi, che doveva essere qui con noi e non è potuto venire, ha mandato un messaggio il cui succo è: Capossela è il più importante poeta italiano. «La poesia di appena ieri» leggo dal messaggio di Fofi «anche quando alta e sublime, rischia di sembrarci evasiva di fronte all’insorgenza di tempi che potrebbero essere (non è un’ipotesi campata in aria) gli ultimi.
Non si tratta più per il poeta Capossela - forse il maggiore tra i nostri italiani di oggi - di tentare di riportare in vita il passato e rivendicare un’autenticità impossibile ma di difendere la possibilità di un futuro, per trasferirvi il meglio di ciò che siamo stati. Vinicio è tra i pochissimi a essersi messo su questo difficile cammino. Cantare scrivere recitare torna a essere con lui un modo di profetare risvegliare agitare ed è per questo che ci è oggi così necessario» (corsivi miei).
Necessario. Che complimento più alto si può pensare per un artista? Capossela, cappello d’ordinanza, sorride imbarazzato e riparte dall’idea della fine dei tempi, quella che cattura di più la sua attenzione, e non è certo un caso.
«Ho appena letto “La peste scarlatta” di Jack London, un testo apocalittico» esordisce. «Questa sensazione di vivere sulla fine del mondo conosciuto è una sensazione limite che ispira la letteratura. Anche lo scritto di Fofi va in questa direzione. Ho molto apprezzato, di recente, la petizione di rendere l’uomo patrimonio dell’umanità. Iniziativa lodevole: se ci pensiamo, è proprio l’umanità a essere minacciata, non tanto l’uomo.
Voglio dire che la sensazione di essere alla fine è antica e ricorrente. Quindi mi interessa una tematica come quella della peste, un’estinzione collettiva, che ha i suoi meccanismi. Come la negazione iniziale della malattia, che comporta il non nominarla nemmeno, e poi c’è la faccenda del discioglimento dei legami di solidarietà sociale, e occorre sopravvivere ognuno per sé, poi l’insorgere delle false credenze e della ricerca del capro espiatorio, tutti meccanismi ricorrenti di una forma di pestilenza morale e poetica, soprattutto per la capillarità del contagio, che nella rete, ad esempio, è molto molto efficace».
Capossela, quando parla - e tira fuori considerazioni di questo tipo -, raramente guarda in faccia l’interlocutore o il pubblico. Si tormenta la barba, arrotola i riccioli, gesticola, guarda un punto indefinito, come a pescare le parole da un libro invisibile, parla con lentezza e voce calma, costruendo il ragionamento parola dopo parola, come mattoni che solo nell’insieme disvelano il disegno della risposta. I suoi occhi, quasi non fosse (anche) una istrionica pop star, conservano, chi lo direbbe?, una mite timidezza.
«La peste» è una canzone centrale in questo disco, così affondato nel presente (c’è persino l’auto-tune, forse il suono simbolo dei nostri giorni) che non te lo aspetti da uno che ha rincorso, negli ultimi anni, miti e riti ancestrali, è andato a cercare nel fondo delle nostre credenze, delle leggende e delle tradizioni di un mondo, quello contadino, quasi oramai scomparso.
«È singolare che l’avvelenamento delle coscienze - continua - avvenga nel momento in cui lo stesso mezzo permette di avere la massima accessibilità alla conoscenza. E invece, sui grandi numeri, amplifica pulsioni al basso molto forti e immediate. È un cambiamento epocale nella comunicazione degli individui».
Ma dove lo trovate, mi continuo a chiedere, un cantante che è a suo agio sul palco - esplosivo nel far indiavolare di balli tarantolati migliaia di persone - e in cattedra alla Normale di Pisa (è accaduto di recente, con Chiara Frugoni) a parlare di “perfetta letizia” francescana e danze macabre. E sa collegare gli strumenti medievali e questi temi alla nostra vita quotidiana.
Come se nelle sue ballate - altra forma del tutto in controtendenza - si celasse, infine, una “difesa” da questa pestilenza. «Si tratta di uscire da quella che io chiamo dittatura dell’attualità, il bisogno di non collegarti, limitare il telefono, potersi appartare in luogo semi-abbandonato, dove ho sempre sperimentato questo ammutinamento dalla Storia, nel tentativo di purificazione.
A inizio anno, mi andavo a rifugiare nelle letture preferite, i trovatori, il mondo fiabesco e simbolico, nella letteratura medievale che ho sentito molto vicina, i bestiari, dove per questo tipo di cultura è evidente che il reale non coincide col vero, che è irriconoscibile. Nella cultura contadina, quando si moriva, si diceva del morto “è andato al porto della verità”: la verità è qualcosa di diverso, non appartiene alla realtà. Io la trovo nella poesia, nei libri, che vanno ad alimentare il tempo verticale, in contrapposizione al tempo orizzontale delle necessità della nostra vita. Questo tempo verticale ci pone in collegamento a una storia più ampia, un tempo-non tempo in cui trasferiamo un’esperienza personale».
Parole, badate, che vengono dette all’impronta e sono evidentemente il portato più ampio di ciò che è distillato nelle canzoni. Ogni canzone, un’enciclopedia di significati, un precipitato di letture, assonanze, mitologie, mestiere (certo) e ispirazione.
Nello zoo personale (sentitelo sugli animali: «C’è qualcosa, nel volto animale, che ci porta a un sogno comune, a un’oscurità primordiale, che però è sempre un interrogativo, perché guardare l’animale è qualcosa che ci riguarda e che ci esclude, c’è un enigma dietro, ed è per questo che gli uomini cercano nel volto animale un accesso al sacro, alle divinità arcaiche») di questo ultimo disco - di uno che era già stato corvo torvo, sirena che parla in sirenese, minotauro di sé stesso e aveva ascoltato le serenate del capodoglio... - ci sono maiali, giraffe, orsi, gatti neri di malumore, asini “fatti vecchi” e posti in esubero; e c’è però, poi, una ballata sul poverocristo, forse la nostra metafora più calzante.
«È un’espressione che in altre lingue non c’è: gli inglesi hanno poor devil non poor Christ, per noi Cristo si è fatto uomo, e si è impoverito». Un poverocristo sconfitto dalla prepotenza dell’uomo, costretto a tacere.
Ragiona sul bisogno di solidarietà, Capossela, sugli istinti e sulla cultura, che permette di superarli. A volte. «Bisogna fare un grande lavoro prima di arrivare a superare l’orrore per miseria malattia vecchiaia. Il comandamento dice onora il padre e la madre proprio perché non è naturale farlo, onorare la vecchiaia la malattia, dedicargli tempo, è un lavoro della cultura. Perché la natura, darwiniana, è quella del più forte, è una pulsione più facile, e i santi non fanno più miracoli, si sono stufati, la gente non avendo più fede nel miracolo ha perso la speranza, non avendo più santi a cui votarsi, vota male». Arrivano gli applausi, e i sorrisi.
Vinicio ultimamente “indossa” i pince-nez e ha sempre con sé un taccuino; segna incessamente parole che sente e vengono dette, si imbeve di tutto ciò che può e lo riordina nel suo mondo poetico dove convive un pantheon che va da Wilde ad Artaud, da Omero a Fante, mischia Matteo Salvatore e Bob Dylan, i mamuthones e Carosone. Uno spettatore gli chiede quali siano le domande che dobbiamo farci per creare il dubbio e convivere in questi tempi balordi.
Vinicio ci pensa un momento. «Il paese dei coppoloni - attacca - (uno dei suoi romanzi editi da Feltrinelli, ndr) è un viaggio nella cultura dei miei genitori. Nel paese, segnato dall’emigrazione, trovavi gli anziani che, quando ti incontravano, ti dicevano: “chi sei?” “a chi appartieni?” e infine “quanto resti?”. Sono delle buone domande da dove partire». Perché vanno dritte al nocciolo della questione.
La notte seguente, al termine di un memorabile concerto di tre ore, svariate maschere e cappelli indossati a “incarnare” i brani, dopo avere officiato il rito da sciamano del palcoscenico con potenza, sceglierà ancora la parola scritta, l’omaggio alla luna nel finale del romanzo, per congedarsi. «Signora Luna» (una delle sue più struggenti vecchie canzoni) è alle sue spalle, stavolta, e non la vede, e, nelle notti del cinquantenario della sua “conquista”, lui piuttosto ne difende la purezza, ne celebra, anche fisicamente, l’inattingibilità.
Non è ancora chiarissimo chi sia, Vinicio Capossela, ed è impossibile, nel suo nomadismo identitario, stabilire a chi appartenga; c’è solo da sperare che resti ancora a lungo e che continui a cercare e indicarci quei sentieri di verità, che intravede nel tempo verticale nel quale abita lui con la sua opera. Come sa la lumaca, “eroe” finale del disco: «Ricondurre il mondo / all’umile / e piccolo / fuori dal tempo / dell’Utile e del Lavoro. / Il Sacro è lento e immanente. / Sfidare il tempo facendolo lento / rallentare il tempo / rallentare il tempo /e godersi la scia». La luna, alle 3 del mattino, quando ci salutiamo, ci contempla da siderali distanze, e sorride a queste rocce antiche, testimoni degli approdi dei fenici, e a questa musica, questi canti da profeta «necessario», che sono ancora nell’aria, e ci riportano, tutti povericristi, alla nostra umanità.
Auuuu, mannaro melancolico. Auuuu.
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