Vino, export record a 7,8 miliardi grazie alle bollicine. Ma c’è qualche crepa
Fatturato a +9,8% con gli spumanti al 23% dei volumi (7% nel 2010): la corsa di Prosecco (+22%) e Asti (+16%) rischia di diventare una dipendenza come lo sbocco in pochi Paesi. Nel 2022 le performance sono state molto influenzate dal dato dei prezzi
di Giorgio dell'Orefice
3' di lettura
Non è affatto oro tutto quello che (ancora) luccica. I numeri dell'export di vino italiano continuano a essere positivi e fanno segnare un nuovo record di fatturato toccando quota 7,87 miliardi di euro (con una crescita del 9,8%). Ma non prestare l'orecchio agli scricchiolii che vengono a malapena celati dai numeri si rischia di commettere un grave errore. Perché se sul fronte dei valori si è registrato l'ennesimo risultato positivo (sono oltre 20 gli anni di crescita consecutiva del fatturato all'export) sul piano delle quantità sono anni invece che si registra una “calma piatta”.
Nel 2022 le esportazioni italiane sono tornate sotto la soglia dei 22 milioni di ettolitri (-0,4%). L'Italia nel 2013 esportava 20 milioni di ettolitri ed è sempre rimasta attorno a quella cifra con l'unica eccezione del 2021, l'anno della ripartenza post Covid in cui l'export si riportò oltre quota 22 milioni. E ora è ripresa la discesa.
Inoltre, questa asimmetria nell'export di vino con valori in crescita e quantità stabili (se non in calo) va in scena già da qualche anno. Nel 2022 però a differenza degli anni precedenti, le performance sono state anche pesantemente influenzate dal dato inflattivo. E depurata dall'inflazione la crescita 2022 sarebbe molto meno esaltante.
Ma soprattutto stanno cominciando a prendere forma alcune vere e proprie “dipendenze” del vino italiano. Una è quella relativa agli sbocchi di mercato. Le prime cinque destinazioni del vino made in Italy (Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Canada e Svizzera) coprono il 60% delle spedizioni. Tra questi mercati in anni recenti forse solo il Canada ha messo a segno una crescita rilevante fino a entrare nella Top 5 dei clienti delle etichette made in Italy. Gli altri sono in quelle 4 posizioni praticamente da decenni ma, soprattutto, si fa grande fatica a esportare con volumi e valori apprezzabili su mercati davvero nuovi: la Cina resta un’incompiuta, il Giappone viaggia ad anni alterni, qualcosa sembra muoversi in paesi dell’Est Europa come Polonia e Repubblica Ceca ma con numeri ancora limitati e infine la Russia che resta un'incognita: continua ad acquistare vino italiano (spesso grazie alle triangolazioni con i paesi baltici) ma per il futuro nessuno si lancia in previsioni.
L’altra “dipendenza” è quella che lega i risultati delle esportazioni di vino alle performance degli spumanti. L'Italia nel 2022 ha esportato 5,2 milioni di ettolitri di spumante (+6%) per un giro d'affari di 2,16 miliardi (+19,4%). Un fatturato spinto in particolar modo dal Prosecco (+22%) e dall'Asti (+16%). Gli spumanti rappresentano oggi il 23% dei volumi di vino esportati, una quota che era del 14% nel 2015 e di appena il 7% nel 2010. «In molti paesi – hanno spiegato all'Osservatorio Uiv-Vinitaly – le bollicine rappresentano il primo prodotto esportato dal nostro Paese. In Australia coprono il 48% del totale export di vino made in Italy, in Lettonia il 61%, in Polonia il 45%, in Romania il 70%, in Ungheria il 65% in Nuova Zelanda il 67%».
Insomma, gli spumanti made in Italy macinano risultati ma se questo trend dovesse ad un tratto incepparsi?
«L’export 2022 ha messo a segno una crescita del 10% – ha commentato la presidente di Federvini, Micaela Pallini –. Non possiamo fermarci però solo al dato apparente. L’Italia soffre per la spinta inflattiva e per lo scenario geopolitico con il relativo aumento dei costi, fattori che hanno generato un clima di incertezza che pesa sulle imprese. Il settore registra buone performance nei mercati tradizionali, ma la marginalità è messa a dura prova ed i nostri vini continuano a scontare un posizionamento di prezzo all'export più basso, soprattutto rispetto alle etichette francesi».
Ma a preoccupare la presidente di Federvini è soprattutto «il danno reputazionale legato alla possibile entrata in vigore di provvedimenti sull’obbligo di inserimento di messaggi allarmistici in etichetta come quelli proposti dall'Irlanda e recentemente anche dal Cile, oltre alle derive che si stanno manifestando nel dibattito internazionale in sede Oms dove si rischia di perdere di vista la distinzione tra il consumo moderato e abuso. Gli effetti di questi dossier minacciano di compromettere anche le politiche di promozione che in anni recenti hanno svolto un ruolo di grande rilievo nello sviluppo dell'export made in Italy».
«Il 2022 – ha aggiunto il segretario generale dell'Unione italiana vini, Paolo Castelletti – ha tenuto nonostante tutto, anche se con il calo del secondo semestre -3% nei volumi da giugno in poi, si sono accentuati gli scricchiolii della filiera. Da una parte un comparto premium che cresce, dall'altra un'offerta basic costretta a dibattersi tra surplus di costi e competitor sempre più aggressivi. Senza dimenticare 2 dipendenze: la prima, atavica, si lega a una platea della domanda ancora troppo concentrata su pochi Paesi; la seconda, sempre più palese, è legata al traino fondamentale giocato dal Prosecco, senza il quale lo scenario sarebbe senz'altro diverso».
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