Cassazione

Violenza sessuale, risarcisce lo Stato se il reo non può

I giudici si muovono sulla traccia della Corte Ue dopo i due rinvii pregiudiziali

di Patrizia Maciocchi

(AdobeStock)

2' di lettura

Lo Stato deve indennizzare la vittima della violenza sessuale se gli autori del reato non hanno le disponibilità economiche o sono irreperibili. Per l’intervento pubblico non è poi necessario che per la vittima ottenere il risarcimento dagli autori sia impossibile, basta l’oggettiva difficoltà. Né il “ristoro” può essere subordinato ad un’azione giudiziaria, se questa si rivelerebbe inutile a causa dell’irreperibilità di chi ha commesso il crimine. In più l’indennizzo va personalizzato e, per essere equo e adeguato, deve considerare la gravità del reato e le altrettanto gravi conseguenze, tipiche della violenza di genere.

La Corte di cassazione con un’inedita sentenza – la n. 26757 che arriva dopo due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea – si muove sulla linea tracciata dai giudici di Lussemburgo (C-129/19), e respinge, quasi integralmente, il ricorso della Presidenza del Consiglio. A dare il la alle domande pregiudiziali la vicenda di una cittadina italiana che, nel 2005, aveva subito violenza sessuale e dopo la condanna penale degli imputati, due cittadini romeni, non era riuscita a ottenere un risarcimento per la latitanza degli aggressori.

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La questione del mancato indennizzo era stata sottoposta agli eurogiudici, perché l’Italia ha recepito in ritardo (solo nel 2017) la direttiva 2004/80 e in maniera inadeguata. La Corte Ue aveva chiarito intanto che la platea dei destinatari degli indennizzi non poteva essere ristretta alle situazioni transfrontaliere, e dunque alla cosiddette vittime di “transito”, ma estesa anche alle vittime residenti.

I giudici della terza sezione civile, con una decisione da loro stessi definita molto tecnica ma importante, hanno condannato la presidenza del Consiglio a risarcire la vittima, in maniera equa ed adeguata rispetto alla sofferenza patita, per aver dato attuazione con ritardo e “al ribasso” alla norma Ue. L’Italia aveva previsto in prima battuta, con il Dm del 31 agosto 2017, un indennizzo fisso di 4.800 euro. Una cifra lievitata (Dm 22 novembre 2019) ad un importo base di 25mila euro, con la possibilità di un incremento di 10mila euro per spese mediche e assistenziali.

Ad avviso della presidenza del Consiglio era però esorbitante l’indennizzo di 50mila euro fissato dalla Corte d’Appello. La Corte Ue, dopo aver ritenuto, nel primo verdetto, non rispondente ai criteri di equità e adeguatezza imposti dalla direttiva i 4.800 euro stabiliti in origine, ha precisato che va messo nel conto anche il maggior danno subìto da chi non ha potuto usufruire del vantaggio offerto dalle leggi nazionali adottate in ritardo. La Suprema corte, sulla scia di Lussemburgo, sottolinea che l’indennizzo non può essere puramente simbolico. E anche nel caso sia forfettariamente determinato, deve tenere conto della gravità delle peculiarità del crimine e della sua gravità.

Con un’attenzione particolare al dopo, e dunque alle conseguenze. Perché, soprattutto se non esclusivamente, nella violenza di genere ad essere lesa non è solo l’integrità, ma anche la sfera di autodeterminazione della libertà sessuale.

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