Vita di Adriano Olivetti, un italiano straordinario che sognò la modernità
Sarà di sicuro un segno dei tempi il forte interesse che oggi riscuote la figura di Adriano Olivetti, soprattutto in merito alla carica di originalità che ha contraddistinto la sua maniera di pensare l’impresa e di viverla come imprenditore
di Giuseppe Lupo
4' di lettura
Sarà di sicuro un segno dei tempi il forte interesse che oggi riscuote la figura di Adriano Olivetti, soprattutto in merito alla carica di originalità che ha contraddistinto la sua maniera di pensare l’impresa e di viverla come imprenditore. Non si tratta di una novità. Anche nel più recente passato è accaduto qualcosa di simile e la testimonianza sta nella ricca bibliografia di opere che ne hanno celebrato la memo-ria e, in un certo modo, hanno riproposto il magistero. Le Edizione di Comunità, rinate qualche decennio fa con il sostegno della Fondazione Adriano Olivetti di Roma, si sono fatte portavoce di quest’esigenza, ristampando una parte dei volumi che costituivano il catalogo storico delle vecchie edizioni e l’intera lista di opere di cui Olivetti stesso è stato l’autore. Ciò dimostra non solo quanto si sia protratta l’attualità del suo pensiero, ma anche il bisogno di ripensare al suo operato, di attingerci idee, di ridiscuterne gli esiti in epoche lontane e in condizioni modificate. Dire che Olivetti sia diventato un classico del Novecento aiuta a capire le ragioni per cui tornare a lui, forse anche a causa del deserto intellettuale in cui la pandemia (e prima la crisi del 2008) ci costringe a vivere. Abbiamo tutti bisogno di sapere che è esistito un Adriano Olivetti e che di lui rimane un lascito morale su cui probabilmente ci sarebbe ancora tanto da discutere e da interrogarci, a patto però che ci si metta d’accordo su un fatto: negli anni 50 e 60, quando il processo di trasformazione del Paese coincideva con la realizzazione dell’utopia olivettiana, l’ingegnere Adriano non godeva di particolari simpatie in seno all’establishment industriale che osservava con sospetto il suo welfare innovativo, oggi invece si addita a modello quel tipo di organizzazione aziendale, anche a costo di scivolare nell’errore di accettare in maniera acritica, beatificandolo, l’intero operato. Di fronte a un simile rischio occorre conservare la mente lucida e non farsi catturare dai facili entusiasmi, dalle citazioni sfoderate nei discorsi in tv o nei festival. Per accostarsi al mondo di Adriano Olivetti bisogna poggiare i piedi sui documenti, sporcarsi le mani con la polvere accumulata negli archivi come ha fatto Paolo Bricco prima di immergersi nelle stesure sia del saggio di qualche anno fa, L’Olivetti dell'Ingegnere. 1878-1996 (2014), sia di questo appena arrivato in libreria, AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento (Rizzoli, pagg. 473, € 22). Mentre il precedente prendeva in esame un’epoca problematica dell’azienda, la Olivetti di Carlo De Benedetti, qui compone un ritratto totale e completo di Adriano, che sarebbe troppo riduttivo definire semplicemente biografia. Apparentemente lo è, ma non solo: c’è il racconto di un’idea che comincia a germogliare nel Canavese, in seno a una famiglia dai caratteri assai particolari, all’incrocio di almeno due visioni religiose del mondo – quella ebraica del padre e quella protestante della madre – ma con un preciso sentimento della modernità. Qui sta l’importanza del libro.
Finora si pensava ad Adriano come a un personaggio tanto originale da essere considerato un oggetto misterioso del Novecento industriale italiano, ai limiti della stravaganza, perfino ingombrante in confronto alla tipologia degli imprenditori a cui la casistica ci ha abituati. Oggi invece, grazie all’impegno nello scavare dentro gli archivi, consideriamo la vicenda di quest’uomo una storia perfettamente italiana – lo afferma a chiare lettere il titolo –, ricca di intuizioni e di contraddizioni, comprensiva di errori strategici e politici, ma pur sempre esemplare di quell’Italia che ha saputo inseguire i propri progetti nel periodo cruciale della modernità, dimostrando l’esistenza di una possibile “terza via” al capitalismo, qualcosa di inaspettato e di inattuale, che però stava in mezzo tra libero mercato e socialismo reale, a correggerne gli estremismi. Il saggio di Bricco non è il resoconto edulcorato e agiografico di un imprenditore transitato in pochi anni dal culmine del successo a un destino incompiuto, ma un percorso a tappe che attraversa il secolo scorso con i panni di un uomo interessato a produrre oggetti – e anche belli, depositari di uno stile inconfondibile – circondandosi di intelligenza, di creatività, interpretando il suo ruolo in forma anomala e controcorrente. Definire questa storia tipicamente italiana reca l’indubbio vantaggio di riconoscere finalmente che non abbiamo avuto un solo Novecento, rettilineo e uniforme, ma una stratificazione di anni, dove la modernità ha seguito traiettorie non sempre limpide e tuttavia il più delle volte significative, tese a quel bene comune da cui ha preso le mosse l’istinto per il nuovo. In questa prospettiva perfino gli sbagli di un imprenditore possono ottenere l’indulgenza, godere di una comprensione o di una giustificazione. Resta il dubbio se l’industria di Adriano sia stata un exemplum a sé, tanto più irripetibile quanto estraneo al tessuto del nostro Paese, o se non sia meglio considerarla un’occasione mancata, l’ennesima di una nazione che ancora oggi non ha sciolto i nodi del proprio paradigma produttivo e continua a rimandare la scelta a dopo, magari quando sarà tardi. Anche questo è un tema che fa parte della nostra identità e forse c’è da aspettare ancora tanto prima che arrivi a soluzione.
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