Vittorio Emanuele, «giovinetto re» fra storia e cronaca
La docufiction della Netflix segna l'accettazione dei Savoia della loro uscita dalla storia e del loro consegnarsi alla cronaca
di Andrea Merlotti
I punti chiave
2' di lettura
Era il 22 dicembre 1943 quando Benedetto Croce, discutendo del futuro della monarchia, dichiarò che Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto abdicare. E così anche il principe Umberto. Al trono sarebbe dovuto salire il figlio di quest'ultimo, anch'egli chiamato Vittorio Emanuele. A questo «giovinetto re», di appena sei anni, sarebbe spettato il compito di far rifiorire «quella fede e quella poesia che tesserono intorno alla Casa di Savoia i padri del Risorgimento».
Le cose, come è noto, sono andate diversamente. Quel ragazzo è ora un vecchio di 86 anni e il suo ruolo nella storia è stato tutt'altro. Lo racconta bene la docufiction Il principe, realizzata da Beatrice Borromeo per Netflix con la collaborazione dello stesso Vittorio Emanuele. Incentrata soprattutto sui fatti avvenuti sull'isola di Cavallo nel 1978 e sulla tragica morte del giovane Dirk Hamer, in essa trovano spazio, pur per brevi cenni, alcune considerazioni sulla sua condizione di principe in esilio, su cui intendo qui soffermarmi.
Il principe in esilio
A parte rarissimi cenni al padre, a tornare nelle parole e nella memoria del principe è quasi sempre la madre. Anche nella scena in cui si svolge l'intervista a dominare sono due fotografie di Maria José. Nessuna foto, invece, del padre Umberto.Alla madre è legata una delle scene più forti, quella in cui il principe si abbandona a una risata, irrefrenabile, mentre racconta, quasi una confidenza, che la madre gli aveva detto: «Sarai re». «Non ci ho mai creduto....», commenta, chiudendo con un amaro: «scusi, ma mi fa ridere».
L'improvvisa partenza dall'Italia e la coscienza che la promessa fattagli dalla madre era destinata a restare vana fu un trauma per il giovanissimo principe. Ma altrettanto - o più – lo fu la separazione dei genitori, nel 1947. «È difficile crescere da soli», racconta il principe: «ricorderò sempre (che) una volta mia madre mi disse: “Sai, io ti voglio molto bene, però non te lo so esprimere”».
Una «educazione da reali
Un'anaffettività che il principe riporta all'«educazione ferrea» che la regina aveva ricevuto da suo padre, il re del Belgio: una «educazione da reali». È difficile sfuggire alla sensazione che per il principe il padre rappresentasse – in quanto re, ma non solo – il simbolo d'una storia e d'un ruolo divenuti, dopo il 1946, di sempre più difficile gestione. Eppure, proprio nel misurarsi con la millenaria vicenda della sua dinastia e, soprattutto, con le sue pagine più recenti il principe avrebbe potuto costruire un terreno di dialogo con il popolo su cui, un tempo, era stato destinato a regnare.D'altronde, il rapporto d'un principe senza più trono con la storia della propria dinastia non può certo esser semplice. Sono indicative, in questo senso, le parole di Emanuele Filiberto nell'ultima puntata della docufiction, in cui dichiara: «le mie figlie … sono le prime, dopo più di mille anni, che sono libere, che non hanno un'ancora da qualche parte. È che quest'ancora, purtroppo, quando la tiri fuori è piena di alghe, è piena di tutto».
La docufiction della Borromeo, quindi, pare segnare l'accettazione dei Savoia della loro uscita dalla storia e del loro consegnarsi alla cronaca, di qualunque colore e qualità essa sia.
loading...