Voto a 18 anni al Senato, tappa di una lunga marcia verso un bicameralismo senza senso
Siamo di fronte ad una riforma costituzionale sostanzialmente condivisa da tutte le forze politiche, ma occorre una riflessione più approfondita
di Claudio Martinelli*
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Nella totale indifferenza di un’opinione pubblica concentrata su argomenti più accattivanti, come gli Europei di calcio, la variante Delta o il ddl Zan, qualche giorno fa è terminato in Parlamento l’iter della riforma costituzionale che abbassa da venticinque a diciotto anni l’età per l’elettorato attivo del Senato, equiparandola così a quella della Camera. Poiché in entrambe le seconde votazioni il disegno di legge costituzionale ha ottenuto la maggioranza assoluta ma non quella qualificata dei 2/3, entro tre mesi potrebbe essere richiesto un referendum oppositivo, ma è molto improbabile che accada visto che tra i partiti esiste un favore generalizzato verso l’allargamento dei diritti elettorali.
Il mancato raggiungimento del quorum qualificato sembra più il frutto di assenze individuali dovute a svariati motivi che non la manifestazione di una meditata contrarietà politica di qualche gruppo. Dunque, tutto lascia pensare che la riforma entrerà presto in vigore e alle prossime elezioni anche i diciottenni potranno votare per contribuire ad eleggere i Senatori.
I teorici delle riforme a spezzatino e prive di una visione organica dovrebbero sentirsi gratificati dall’andamento di questa legislatura: dopo la riduzione dei parlamentari, ottenuta lo scorso anno, ecco ora questo cambiamento dell’art. 58 della Costituzione. Nel merito specifico va osservato che si tratta di un provvedimento atteso da anni e che elimina una disparità che sembrava divenuta via via sempre più antistorica.
Quindi, tutto bene?
Per una volta siamo di fronte ad una riforma costituzionale sostanzialmente condivisa da tutte le forze politiche, in nome di un incremento della partecipazione politica dei giovani? Il clima di unità nazionale sotteso alla formazione dell’attuale maggioranza sta cominciando a dare i suoi frutti anche in tema di nuovi assetti istituzionali? A costo di offuscare questo quadretto idilliaco, sia consentito proporre qualche riflessione problematica, soprattutto per richiamare alcune esigenze sistemiche che mi pare siano sempre più lontane dagli orizzonti della classe politica.
Il problema di fondo non è assolutamente legato ad una estensione dei diritti elettorali, bensì è insito nelle caratteristiche del nostro bicameralismo. I fautori della riforma hanno argomentato che la parificazione delle basi elettorali delle due assemblee legislative renderà più difficile, anche a prescindere da quale legge elettorale verrà adottata in futuro, la formazione di maggioranze divergenti tra Camera e Senato, effettivamente verificatasi più volte negli ultimi trent’anni. Questa considerazione è tecnicamente fondata e tuttavia deve essere collocata nel suo reale contesto. La riforma segna una tappa ulteriore della corsa italiana verso un sistema bicamerale fortemente discutibile e senza uguali in nessun’altra forma di governo parlamentare. Non è vero che il Costituente aveva disegnato un bicameralismo “perfetto”. Per ragioni legate agli equilibri politici dell’epoca, scelse di attribuire alle due Camere le stesse funzioni ma con parecchi elementi strutturali molto diversi. Poi, spesso anche per ragioni condivisibili, tutte le revisioni introdotte sono andate nel senso di una riduzione di queste differenze.
Altre revisioni in corso d’opera
E lo stesso vale per quelle che si profilano o che sono già in discussione in Parlamento, alimentate dalle storture prodotte dalla riduzione del numero dei parlamentari: parificazione anche degli elettorati passivi, cancellazione dell’ancoraggio del sistema elettorale del Senato alla dimensione regionale. Ebbene, la tendenza di fondo sembra andare verso un bicameralismo “più che perfetto”, ovvero due rami con la stessa base elettorale, le stesse funzioni, le stesse maggioranze. Su di un piano meramente astratto è possibile sostenere la superiorità concettuale della democrazia “del doppione”, ma siamo sicuri che tutto ciò corrisponda ad un disegno razionalmente elaborato, ampiamente discusso e fondatamente argomentato nei suoi caratteri sistemici?
Al contrario, l’impressione è che, ancora una volta, si proceda per accumulazione casuale, guardando solo agli effetti specifici di questa o quella innovazione e alla sua capacità di presentarsi come buona e giusta agli occhi degli elettori. Se invece si apre lo sguardo non si può che nutrire qualche perplessità sul senso e la consistenza di un tale bicameralismo. Innanzitutto perché smarrisce il suo significato storico. Nella teoria e nella storia del costituzionalismo l’esistenza di due camere è sempre stata giustificata dalla loro differenziazione: dalla diversa natura della rappresentanza, dalla corrispondenza con la struttura autonomista dello Stato nazionale, dall’attribuzione di un diverso patrimonio di funzioni.
Verso due Camere “uguali” ma una doppia dell’altra?
A queste visioni sono sempre state contrapposte le ragioni del monocameralismo, altrettanto importanti e degne di attenzione, come dimostrano le scelte operate da molti Stati soprattutto nel corso del Novecento. Ecco, sarebbe opportuno che l’opinione pubblica fosse consapevole che la nostra classe politica sta operando in modo tale da completare il percorso verso un approdo che, non corrispondendo a nessuno di questi modelli, è sostanzialmente sconosciuto, per lo meno nei termini così estremi. I profili critici sono numerosi e variegati, ma penso che su tutti aleggi uno stringente interrogativo logico e giuridico: se le due Camere si apprestano a diventare uguali in tutto e per tutto, perché una dovrebbe essere il doppio dell’altra?
La futura Camera avrà 400 componenti, il Senato 200: non è dato conoscere la ragione profonda che giustifichi questo divario. Mentre per restituire un senso al bicameralismo bisognerebbe procedere in direzione diametralmente opposta, e cioè fornirgli maggiori elementi di differenziazione capaci di dotare ciascuna Camera di un’identità precisa e specifica. Ma ovviamente questa prospettiva richiederebbe una visione istituzionale complessiva, di lungo respiro, animata da una progettualità in grado di restituire efficacia all’intera forma di governo. E invece la realtà che abbiamo di fronte ci restituisce un assetto istituzionale a dir poco approssimativo, figlio di un approccio puntiforme e privo di una visione prospettica.
Il fatto che questo processo stia maturando nell’indifferenza generale non garantisce l’assenza di problemi e criticità; anzi, è solo l’ennesima dimostrazione di un malcostume a cui anche i cittadini non sono estranei, e cioè appassionarsi alle riforme costituzionali solo quando le forze politiche chiamano in gioco le opposte tifoserie, per scagliarsele reciprocamente addosso. Non proprio l’immagine di un Paese maturo che riflette in modo responsabile su se stesso e sulle proprie regole costituzionali.
*Costituzionalista Università di Milano-Bicocca
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