intervista al CAPO DELLA Bundesbank

Weidmann: «La Bce non può sostituirsi ai Governi»

di Claire Jones

10' di lettura

L’uomo che voleva essere re della finanza europea irrompe dentro il Margarete, un elegante ristorante moderno non lontano dal quartier generale della Banca centrale europea, con dieci minuti di anticipo. Ha l’aspetto del classico manager tedesco rampante di mezza età: indossa un completo blu scuro molto sobrio, tagliato su misura per la sua corporatura snella. I capelli biondi si stanno diradando, ma le chiazze di grigio sono poche e la pelle e gli occhi hanno la lucentezza di un uomo molto più giovane di lui.

Ma Jens Weidmann non è un normale manager. È l’uomo a capo della Bundesbank, probabilmente l’istituzione più amata di tutta la Germania. Come disse scherzosamente una volta il politico francese ed ex presidente della Commissione europea Jacques Delors: «Non tutti i tedeschi credono in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank». Per di più, ci incontriamo in un momento in cui a Francoforte fervono le speculazioni sulla sua prossima mossa e l’eventualità che possa prendere il posto del misurato Mario Draghi al timone della Bce. Weidmann si guarda bene dal dichiararsi come potenziale successore dell’uomo di cui ha contestato pubblicamente le politiche economiche, ma pochi dubitano che ambisca a quel posto.

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Un uomo che sa ottenere quello che vuole

C’è una domanda che mi frulla in testa: un tedesco ha davvero qualche possibilità di accedere al ruolo più importante della finanza europea?

Avendo fatto confusione con l’orario, sono arrivata con mezz’ora di anticipo e ho avuto il tempo di esaminare attentamente lo stile industrial chic del ristorante e il menù, piuttosto incongruo, a base di piatti semplici della cucina locale. Io e Weidmann ci sediamo discosti dal resto degli avventori, nascosti dietro una spessa tenda e sorvegliati, da un altro tavolo, da uno degli uomini della sicurezza.

Lanciando un’occhiata verso la guardia del corpo, Weidmann scherza che quelli della sicurezza discutono sempre su chi dovrà avere la sfortuna di accompagnarlo nella sua quotidiana scarpinata da 13 rampe di scale fino all’ultimo piano dell’edificio della Bundesbank. «Estraggono a sorte chi deve venire con me», dice, aggiungendo che quell’esercizio lo prepara ad affrontare la giornata. «È fattibile», dice. L’ascesa dei 45 piani della sede centrale della Bce probabilmente sarà ben più impegnativa. Basta una breve passeggiata lungo il fiume Meno per arrivare dal Margarete alle due torri d’acciaio della Bce, circondate da un’alta palizzata che le separa dal resto della città, emblematica, direbbe qualcuno, di un’istituzione che non si è mai sentita bene accolta qui a Francoforte, o in generale in Germania.

Weidmann è un uomo abituato a ottenere quello che vuole, e in fretta. Quando arrivò alla presidenza della Bundesbank, nel 2011, aveva 43 anni ed era il più giovane ad aver mai ricoperto quel ruolo. Prima era stato direttore della influente divisione economica e finanziaria della cancelleria tedesca, sotto Angela Merkel, e anche lì era tra i più giovani di sempre. I funzionari della Banca centrale temevano che sarebbe stato un burattino della cancelliera, visti i suoi trascorsi berlinesi, ma le loro paure si sono rivelate infondate: sotto di lui, la Bundesbank ha mantenuto la sua reputazione di paladina inflessibile della moneta forte e dell’inflazione bassa, suscitando spesso l’irritazione della Bce. Gli chiedo se sia stato più facile lavorare con la cancelliera o con Draghi.

Tra Merkel e Draghi

«In un certo senso è stato più facile lavorare con la Merkel», dice. «Mi intendevo piuttosto bene con lei, perché ha un approccio molto analitico. Alla fine è lei che decide, ma fino a quel momento si può discutere ottimamente; altrimenti non sarei rimasto a Berlino per sei anni. Anche con Mario è facile conversare: è una persona molto colta, si può parlare di tantissime cose con lui». Un tocco di diplomazia inconsueto in Wiedmann. Penso a tutte le volte, negli ultimi anni, in cui ha sparato bordate ben più esplicite contro il presidente della Bce, e passò al menù.

Weidmann ha scelto il Margarete perché ha una cucina «alla buona, con una componente regionale». Nonostante la sua indiscutibile ambizione, c’è una certa semplicità in lui. Forse perché non si è mai allontanato dalle sue radici. Vive in un paesino tra i vigneti del Rheingau, in una casa acquistata durante il suo primo periodo alla Bundesbank, tra il 2003 e il 2006. È facile capire come la vita in un contesto così idilliaco, durante la prosperità degli ultimi decenni, possa convincere qualcuno dei benefici economici del modo tedesco di fare le cose.

La sua prima ambizione era fare il pompiere. Molto appropriato, suggerisco io, per una generazione di banchieri centrali costretta a interessarsi alla disciplina della gestione dei disastri. «In un certo senso ha funzionato, sì», concorda lui. Ha studiato economia monetaria a Bonn, Parigi ed Aix-en-Provence, dove ha scoperto un amore per la cucina (fa un formidabile gelato al tè verde). Gli anni trascorsi in Francia gli hanno insegnato anche che essere un bravo europeo e sentirsi orgoglioso del Paese da cui si proviene non sono cose in contraddizione fra loro. «Sei tedesco e non devi cercare di negarlo o nasconderlo», dice. «Secondo me la diversità è un bene per l’Europa».

Weidmann ha completato il suo dottorato con Manfred Neumann, un accademico che prima della sua morte, nel 2016, ha attaccato ferocemente la risposta della Bce alla crisi finanziaria. Pur se in modo meno tagliente del suo tutor di una volta, anche il presidente della Bundesbank è stato una spina nel fianco per Draghi. L’italiano non ha apprezzato le critiche di Weidmann alle misure prese durante la crisi, che non hanno certo contribuito a migliorare l’immagine della Bce in Germania. Poco dopo la sua nomina a capo della Banca centrale europea, la “Bild”, il giornale tedesco più venduto, aveva consegnato a Draghi un elmetto prussiano, in segno di apprezzamento per le sue iniziali dichiarazioni. Ma il suo successivo impegno a fare «whatever it takes», tutto il necessario per sostenere l’euro, aveva ridestato la vecchia diffidenza tedesca nei suoi confronti. Per una nazione che vede il debito come un peccato (la parola che lo designa, «Schuld», significa anche «colpa»), le iniziative aggressive prese dalla Bce per non far calare il sipario sullo show europeo (fra le altre cose, la promessa di spendere migliaia di miliardi di dollari per comprare titoli di Stato e i tagli drastici ai tassi di interesse, che i risparmiatori di queste parti vedono come il fumo negli occhi) sono diventate il simbolo di tutto ciò che i nemici dell’euro detestano nella moneta unica. Al punto che la “Bild”, nel 2012, ha chiesto indietro a Draghi l’elmetto prussiano, anche se poi non si è preoccupata di domandarglielo formalmente.

Tra i giovani e cosmopoliti avventori del Margarete probabilmente si farebbe fatica a trovare qualche fiero contestatore delle misure prese dalla Bce durante la crisi. Ma i tedeschi più anziani, inclusi esponenti dell’establishment economico e politico del Paese, si scagliano violentemente contro Draghi. Nell’aprile del 2016 è stato perfino accusato dall’ex ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble di contribuire all’ascesa del partito di destra Alternativa per la Germania.

La diffidenza dei tedeschi per la Bce

Weidmann non pensa che il fatto che lui, il presidente della venerata Bundesbank, sia stato così apertamente critico nei confronti dell’Eurotower abbia reso le cose più difficili per la Bce? Lui obbietta che i tedeschi avrebbero perso fiducia nella loro Banca centrale, se non fosse stata coerente con la propria visione tradizionale. Perciò la Bundesbank doveva anche criticare la Bce, oltre che sostenerla. (Persone bene informate dicono che Weidmann ha fatto molto più spesso la prima cosa che la seconda, votando contro quasi tutte le misure di supporto monetario per l’Eurozona degli ultimi sei anni.) Poi aggiunge: «La fiducia deriva dalla comprensione. Ma deriva anche dalla personalità». Alcuni pensano che la diffidenza dei tedeschi verso la Bce cambierebbe se fosse un tedesco a prendere il posto di Draghi, quando scadrà il mandato di quest’ultimo alla fine del prossimo anno.

Ma sarebbe un cambiamento straordinario, sia per Weidmann che per l’istituzione. Tra i pochi, all’interno dei 25 membri del Consiglio direttivo, che si sono opposti all’acquisto di obbligazioni da parte della Bce, lui è stato quello che si è esposto di più. Perfino i politici e alti funzionari che simpatizzano con le sue posizioni ritengono che sia stato un errore scagliarsi così apertamente contro la battaglia di Draghi per tenere insieme la moneta unica. Dopo anni che seguo le vicende della Bce, il mio sospetto è che la sua tesi che la nazionalità non ha più importanza sottovaluta i complessi aspetti politici che circondano questo incarico: almeno se pensa veramente ciò che dice.

La sua tesi è che se si vuole che l’unione monetaria funzioni, la questione della nazionalità dev’essere messa da parte. Parlare tutto il tempo del passaporto dei candidati «dimostra un certo nervosismo», che secondo Weidmann finirà per indebolire la fiducia della gente nell’euro. «Se lei dicesse, “Non avremo mai uno di Malta alla Bce”, come crede che si sentirebbero i maltesi? Pensa che sarebbero disposti ad accettare le politiche della Bce?».

Gli rispondo che penso che i maltesi sappiano che è molto improbabile che uno di loro possa mai succedere a Draghi. «Ha capito cosa intendo», si inalbera lui. «Se esclude un Paese e dice nessuno del Lussemburgo, di Malta o che so io… Non è così che dovrebbe funzionare».

Ormai è un’ora che siamo a tavola. Mentre affronto la cotoletta, Weidmann comincia a smarrire l’aplomb. Questa discussione sulla nazionalità di un candidato è «completamente assurda», dice. «Ma lei avrebbe chiesto se questa istituzione va bene per un italiano?». Beh, sette anni fa fu esattamente la domanda che fecero in tanti. Nel 2011 sembrava, per la prima volta nella storia dell’istituzione, che la presidenza della Bce sarebbe andata a un tedesco, ma l’ambìto traguardo sfuggì dalle mani di Berlino quando il presunto favorito, Axel Weber, predecessore di Weidmann alla testa della Bundesbank, si ritirò a sorpresa dalla corsa. L’incarico finì a Draghi, cittadino di un Paese sinonimo di inflazione sfrenata. Alla fine, il candidato di Roma ha dovuto combattere mostri ben diversi: il panico dei mercati per la crisi debitoria dell’euro, che ha toccato l’apice nel 2012, e dopo di quello l’aumento della disoccupazione e il rischio di deflazione.

La crisi finanziaria mondiale ha quasi distrutto l’eurozona. Chiedete alle persone, a Parigi o a Roma, cosa pensano che sarebbe successo se ci fosse stato Weber al timone e pochi vi risponderanno che sarebbe andata a finir bene. Tutti danno per scontato che Weber, seguace della dottrina della Bundesbank per cui l’inflazione va tenuta bassa quasi a qualsiasi costo, sarebbe stato troppo rigido per prendere le misure radicali necessarie per tenere in piedi la moneta unica.

La crisi e la soluzione

Oggi quasi tutti attribuiscono alla Bce il merito di aver salvato l’euro, dopo la sfida diretta agli scettici che lanciò Draghi con la minaccia di acquistare quantità potenzialmente illimitate di titoli di Stato per contrastare tutti quelli che speculavano sull’imminente tracollo dell’eurozona. Ma questo ha inorridito gli economisti ortodossi tedeschi. Nel 2012 Weidmann evocava il «Faust» di Goethe per mettere in guardia dai pericoli di una Banca centrale che finanzia lo Stato. Nelle prime scene della tragedia, Mefistofele persuade l’imperatore del Sacro Romano Impero, pesantemente indebitato, a stampare moneta cartacea per risolvere una crisi economica: l’imperatore stampa sempre più moneta, finché l’inflazione va fuori controllo.

Per ora Weidmann si accontenta di tessere qualche tiepido elogio di Draghi, ma riecheggiando un’opinione che ho sentito ripetere innumerevoli volte in Germania, e cioè che la Bce ha fatto troppo per soccorrere i membri più deboli dell’Eurozona. «La Bce è indubbiamente un’istituzione che funziona bene», dice. «Ma questa non può essere una ragione per sostituirci ai Governi».

Paradossalmente, Weidmann potrebbe beneficiare proprio del fatto che la nazionalità conta ancora. È proprio in quanto tedesco che è considerato il favorito per la presidenza dell’Eurotower. Sono stati fatti anche altri nomi, come il governatore della Banca di Francia François Villeroy de Galhau e il presidente della Banca dei Paesi Bassi Klaas Knot, ma nessuno tanto quanto il capo della Bundesbank. Dopo un olandese, un francese e un italiano, molti pensano che tocchi alla Germania dirigere la Bce. Anche la nomina del ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos al posto di vicepresidente sembra incrementare le chance di Weidmann: un vicepresidente di uno Stato del Sud sembra spianare la strada a un candidato del Nord per l’incarico più alto.

Il grande interrogativo è se Berlino sarebbe disposta a pagare il prezzo che gli altri, per opinione generale, pretenderebbero in cambio, cioè un approfondimento dell’unione monetaria. Weidmann giudicherebbe un accordo su un bilancio comune dell’Unione europea, per cui preme il presidente francese Emmanuel Macron, come una contropartita equa in cambio di un presidente della Bce tedesco?

È un altro dibattito «assurdo», dice. Cita il fatto che dal 2003 al 2011 il governatore è stato Jean-Claude Trichet. «Insomma, avevamo un francese presidente della Bce e che cosa hanno chiesto i tedeschi ai francesi come compensazione? Abbiamo forse introdotto qualche altro meccanismo basato sulle regole come contropartita? O abbiamo chiesto trasferimenti alla Germania?».

Le concessioni ai Paesi

L’opinione generale è che la Germania abbia ottenuto in cambio una Bce con sede a Francoforte e disegnata sul modello della Bundesbank. Weidmann non è d’accordo che quella sia stata una concessione francese: «All’epoca erano tutti d’accordo che la strada migliore era una Banca centrale indipendente e focalizzata sulla stabilità: concordavano tutti». Ma la sua intrattabilità come sarà accolta a Bruxelles? Weidmann minimizza la portata del suo dissenso. «In alcuni dibattiti possiamo avere opinioni diverse, ma non succede mai che c’è un outsider contro tutti gli altri». Il passato lo smentisce. Nel settembre del 2012 Draghi confermò che solo uno era contrario alla sua promessa di fare «whatever it takes» per salvare l’unione monetaria. Persone presenti in quella stanza dicono che quell’uno era Weidmann. Negli ultimi mesi il presidente della Bundesbank ha notevolmente moderato alcune delle sue posizioni. La disinvoltura con cui ha gestito la transizione da Francoforte a Berlino e ritorno ha ispirato paragoni con Thomas Becket, che fu fatto arcivescovo di Canterbury da re Enrico II per limitare il potere della Chiesa e invece ne divenne il massimo difensore. Weidmann obbietta: «Non ho mai cambiato le mie convinzioni di fondo o le mie opinioni su determinate cose». La conversazione si sposta sull’arte nel periodo di Weimar, l’epoca a cui risale il terrore nazionale dell’iperinflazione. Weidmann conosce bene la materia e mi parla dei dipinti dei minatori di carbone della Ruhr di Conrad Felixmüller. Ordiniamo due espressi. I banchieri centrali, mi dice, sono «personalità molto attente, misurate». Non sono sicura che i suoi colleghi della Bce concorderebbero.

Lui magari giudica la pluralità di opinioni come un segno della forza dell’Europa; gli investitori lo vedrebbero come l’esatto contrario. Poi, insieme alla sua guardia del corpo, sale a bordo di una Bmw e si avvia verso la Bundesbank, nella direzione opposta della Bce. Per ora.

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