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WeWork, il ceo Neumann paga le incertezze sull’Ipo. E si dimette

Il cofondatore destinato a una poltrona onorifica, presidente non esecutivo della casa madre. WeWork potrebbe essere costretta a fare i conti con un'espansione eccessiva, che oggi la vede gestire oltre 500 sedi nel mondo

di Marco Valsania

Adam Neumann, ceo dimissionario di WeWork

3' di lettura

NEW YORK - Lascia Adam Neumann, co-fondatore e amministratore delegato di WeWork. Rinuncia alla poltrona di chief executive officer, dopo aver fallito nel tentativo di arrivare a un grande collocamento azionario iniziale, bruciato da polemiche su conflitti di interesse, perdite e inadeguata governance. E dopo aver incassato, oltre allo scetticismo di futuri investitori, anche la crescente sfiducia del socio per eccellenza del colosso degli spazi per ufficio flessibili e in condivisione: l'impero finanziario giapponese SoftBank di Masayoshi Son. SoftBank aveva finora iniettato ingenti capitali e lasciato ampia libertà ai vertici, chiudendo un occhio sugli eccessi. Neumann verrà relegato su una poltrona onorifica, presidente non esecutivo della casa madre - We Co.

Al posto di Neumann sono stati nominati a interim due co-Ceo, promossi dagli attuali ranghi dirigenziali: Sebastian Gunningham e Artie Minson. In prospettiva verrà avviata la ricerca di un successore permanente. Neumann, secondo quanto trapelato, vedrà inoltre drasticamente ridimensionata la sua influenza sull'intero gruppo: i titoli nelle sue mani avranno soltanto tre diritti di voto ciascuno invece dei 20 in precedenza. Non avrà controllo di comitati del board. La decisione à stata presa durante una lunga riunione telefonica del consiglio di amministrazione, avvenuta martedì, e dopo consultazioni con numerosi consiglieri dello stesso Neumann.

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La parabola di Neumann, carismatico quanto controverso, è stata drammatica: WeWork, società immobiliare che fornisce spazi di lavoro condivisi per startup tecnologiche e servizi per altre imprese, ha avuto un'ascesa meteorica in nove anni, valutata ancora a gennaio scorso ben 47 miliardi di dollari. La resa dei conti è però parsa a molti inevitabile, viste le sue pratiche di business e i suoi passivi. L'occasione è stata il piano di uno sbarco a Wall Street, al Nasdaq, che avrebbe dovuto avvenire nella settimana del 23 settembre e che invece di celebrazioni ha portato a galla tutte le sfide e i problemi irrisolti. La valutazione è stata bocciata dai potenziali investitori, spingendo WeWork a ridurla fino a 10-15 miliardi. WeWork ha poi deciso di rinviare l'Ipo, almeno fino a metà ottobre e forse ben oltre.

Non è stata infatti solo la valutazione a pesare. Il modello di business è parso sotto assedio: la società ha riportato gravi perdite nell'ultimo anno e una prevedibile frenata dell'economia globale e americana hanno fatto ipotizzare a numerosi analisti ulteriori affanni nella performance. La governance è finita sotto attacco come troppo debole, con conflitti di interessi e protratte attività di self-dealing da parte di Neumann stesso e della sua famiglia. Tra l’altro, negli anni, Neumann aveva affittato a WeWork proprietà immobiliari nelle quali aveva investito direttamente.
«Il nostro business non è mai stato tanto robusto - ha dichiarato Neumann facendo buon viso a cattivo gioco - Nelle settimane recenti, tuttavia, lo scrutinio della mia persona è diventato una significativa distrazione. È nel miglior interesse dell’azienda che io mi dimetta da amministratore delegato».

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La parole di Neumann potrebbero nascondere una realtà meno rosea, stando a indiscrezioni. Rimane da dimostrare che la sua uscita di scena sia sufficiente a superare la profonda sfiducia nelle prospettive dell’azienda, rimettendo in carreggiata un collocamento in Borsa o consentendo un facile recupero d’immagine. WeWork potrebbe inoltre essere costretta a fare i conti con un'espansione eccessiva, che oggi la vede gestire oltre 500 sedi nel mondo: secondo voci starebbe considerando una ristrutturazione che potrebbe eliminare fino a cinquemila dei forse 15.000 posti di lavoro del gruppo.

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