“Yannick” l’estro narrativo di Dupieux in un bel gioco al massacro
In concorso per il Pardo d'oro il nuovo lungometraggio del regista francese, uno degli autori più stravaganti del panorama contemporaneo
di Andrea Chimento
3' di lettura
“Il 99% dei film sono noiosi. Questo no”: sono le parole con cui Quentin Dupieux ha accompagnato a Locarno la presentazione del suo nuovo lungometraggio “Yannick”, inserito nella competizione principale del festival svizzero.
Dupieux, conosciuto anche con lo pseudonimo di Mr. Oizo per la sua importante attività musicale, è un regista che ha sempre amato le provocazioni, a partire dal suo cult surreale “Rubber” del 2010, che vedeva protagonista uno pneumatico dotato di inquietanti poteri psichici.
Inizialmente poco preso in considerazione da buona parte degli addetti ai lavori, Dupieux è ormai stabile nei cartelloni dei grandi festival e ha dimostrato il suo talento con pellicole come “Doppia pelle” (presentato a Cannes nel 2019) o “Mandibules” (in programma a Venezia nel 2020).In quella frase inserita nelle note di regia c'è molto dello spirito irriverente del regista, ma anche una certa coerenza con quello di cui parla il suo nuovo film: siamo a teatro, nel mezzo della rappresentazione de “Il cornuto”, una pessima commedia a dir poco raffazzonata, quando dal pubblico si alza un ragazzo che interrompe lo spettacolo perché totalmente insoddisfatto di ciò che sta guardando. Quella che sembra essere una situazione di breve durata, si trasforma presto nell'antefatto di una lunga serata in cui lo spettatore Yannick terrà in ostaggio gli attori in scena e il resto del pubblico. Nasce da uno spunto narrativo questo film semplice ma efficace, che dura solo 65 minuti e ha una coesione drammaturgica davvero invidiabile.
Un gioco al massacro tra spettatore e attori in scena
Quello che Dupieux mette in scena è un vero e proprio gioco al massacro tra spettatore e attori in scena, con continui ribaltamenti di ruoli in una sceneggiatura che parla di creazione artistica e di come, a volte, per poter intrattenere al meglio il pubblico servano delle scelte narrative meno studiate a tavolino e molto più spontanee di quanto si possa pensare.Durante la visione si può avere la percezione che quello che ci troviamo davanti sia un film fine a sé stesso, ma in realtà gli spunti su cui riflettere non mancano e il disegno generale è ficcante e divertente al punto giusto.
Dupieux gestisce bene i tempi di montaggio e, nonostante ci siano dei passaggi meno riusciti di altri, il suo film regge bene fino alla conclusione.Da segnalare che il prossimo progetto del regista francese sarà presentato fuori concorso tra un mese circa alla Mostra del Cinema di Venezia: il titolo del nuovo film è “Daaaaaali!” e racconterà l'incontro tra un giornalista francese e Salvador Dalí. La curiosità non può che essere altissima.
La voie royale
Decisamente meno originale è invece “La voie royale”, presentato all'interno della sezione Piazza Grande.Al centro della trama c'è Sophie, una ragazza che, incoraggiata dal suo insegnante di matematica, lascia la fattoria di famiglia per frequentare una classe preparatoria scientifica. Tra nuovi incontri, successi e sconfitte, Sophie si rende conto che il suo sogno di entrare in una università prestigiosa rappresenta più di una competizione: è una vera e propria sfida per l’ascesa sociale.L'aspetto più riuscito di questo lungometraggio, diretto dal regista svizzero Frédéric Mermoud, è quello di aver accostato un classico percorso di formazione a una interessante metafora di crescita sociale e di vocazione politica. Oltre a questo, però, non c'è molto da ricordare in una pellicola piuttosto prevedibile e che gioca con vari stereotipi del filone dei coming-of-age: la confezione è discreta, ma non ci sono grandi momenti incisivi e il rischio è quello di un film che si dimentica abbastanza in fretta. Buona prova della giovane attrice francese Suzanne Jouannet.
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